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Articoli Febbraio 2013

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Articoli Gennaio 2013

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Articoli Dicembre

 

Effetto microbi su pancia e cervello

 

Materiale editorialeDescrizione e modalità di aggiornamento

 

Nel nostro intestino, nelle mucose e su tutta la superficie cutanea abita una popolazione microbica pari a dieci volte il numero delle cellule del corpo umano. Il microbiota o microbioma è importante per l’influenza sul sistema immunitario, che nell’intestino e nelle altre mucose ha un suo distaccamento di ampie proporzioni, il sistema immunitario delle mucose, detto Malt nella sigla internazionale. Di recente anche i neuroscienziati si interessano al microbiota e la rivista Nature Reviews Neuroscience ha da poco ospitato una rassegna, scritta da due psichiatri della Cork University, intitolata Impatto del microbiota sul cervello e sul comportamento. Ne emerge che una condizione di stress emozionale altera la composizione del microbiota e, a sua volta, una condizione di stress infiammatorio intestinale altera l’attività cerebrale.

«Gli effetti dello stress cerebrale – spiega Francesco Bottaccioli, presidente onorario Società Italiana di Psiconeuroendocrinoimmunologia – vengono mediati dal rilascio di cortisolo e adrenalina e noradrenalina che modificano l’equilibrio tra ceppi batterici e sistema immunitario locale; al tempo stesso gli ormoni dello stress rendono la barriera intestinale più permeabile ai ceppi patogeni presenti nella mucosa che quindi traslocano all’interno dell’intestino. In direzione opposta, un’alterazione del microbiota intestinale rilascia citochine infiammatorie che, attraverso nervo vago e sangue, raggiungono il cervello».

Studi clinici hanno riscontrato benefici dei probiotici nella Sindrome dell’intestino irritabile e fatica cronica mentre altre ricerche, sia sull’animale che su gli umani, hanno mostrato che un cocktail di probiotici (Lactyobacillus helveticus e Bifidobacteria longum) riduce sia l’ansia che il cortisolo e alza la soglia del dolore.

Il movimento che ripara le arterie

 

Materiale editorialeDescrizione e modalità di aggiornamento

 

Correre o camminare con regolarità mette in circolo cellule staminali in grado di riparare le piccole lesioni delle arterie. Le leggi antifumo continuano a dare risultati concreti positivi per il cuore. Ne parla brevemente la Repubblica.

«Fare del movimento – spiega Repubblica – si sta rivelando il vero elisir di lunga vita. Anche perché si è scoperto che mette in circolo cellule staminali in grado di riparare le piccole lesioni delle arterie che aprono la porta a infarto e ictus. Si calcola che tre ore di cammino veloce a settimana eviterebbero negli Usa 284.886 morti l´anno per malattie cardiovascolari».

«In Islanda – informa Repubblica – nei luoghi pubblici si passa molto tempo, dato il clima. Eppure questo paese ha introdotto il divieto di fumo per locali e uffici solo nel giugno 2007. In pochi mesi, i ricoveri di non fumatori colpiti da sindrome coronarica acuta (anticamera dell’infarto) si è ridotto del 21%. I casi studiati sono stati 378».

Cancro, ecco la pianta velenosa che uccide le cellule malate

Un nuovo farmaco sperimentale derivato da una pianta velenosa potrebbe uccidere le cellule cancerogene

Un nuovo farmaco sperimentale derivato da una pianta velenosa potrebbe uccidere le cellule cancerogene. A sostenerlo è uno studio realizzato dalla Johns Hopkins Cancer Center negli Usa, condotto dal dottor Johm Isaacs e pubblicato recentemente sullo Science Translational Medicine. La pianta in questione è la Thapsia Garganica, che contiene una sostanza in grado di contrastare i tumori, soprattutto quelli alla prostata. La pianta produce la tapsigargina, sostanza tossica conosciuta fin dall’antica Grecia.
Da questa sostanza, i ricercatori sono riusciti a ricavarne un farmaco, denominato G202, per il trattamento medico dei tumori. Il farmaco è stato prodotto modificando chimicamente la tapsigargina in modo da detossificarla: “Il nostro studio ha permesso di riprogrammare le molecole di questo veleno in modo da renderele inoffensive per i tessuti sani. Una volta giunti alle cellule del cancro, la tossicità viene riattivata e le cellule dannose vengono uccise”, ha dichiarato Samuel Denmeade, ricercatore a capo dello studio.  

Attualmente il farmaco è in fase sperimentale. Testato su 29 pazienti con carcinoma prostatico in fase avanzata, ha dato buoni risultati dopo un trattamento di 30 giorni, riducendo le dimensioni delle cellule cancerogene del 50%.

Come agisce il farmaco? La sostanza raggiunge il tumore senza danneggiare i tessuti sani. Viene rilasciata poi una proteina che inibisce la protezione che fa da scudo al tumore, in questo modo il farmaco G202 può andare all’attacco.

Antileukemia component, dehydroeburicoic acid from Antrodia camphorata induces DNA damage and apoptosis in vitro and in vivo models

Abstract Taiwan University

Antrodia camphorata (AC) is a native Taiwanese mushroom which is used in Asian folk medicine as a chemopreventive agent. The triterpenoid-rich fraction (FEA) was obtained from the ethanolic extract of AC and characterized by high performance liquid chromatography (HPLC). FEA caused DNA damage in leukemia HL 60 cells which was characterized by phosphorylation of H2A.X and Chk2. It also exhibited apoptotic effect which was correlated to the enhancement of PARP cleavage and to the activation of caspase 3. Five major triterpenoids, antcin K (1), antcin C (2), zhankuic acid C (3), zhankuic acid A (4), and dehydroeburicoic acid (5) were isolated from FEA. The cytotoxicity of FEA major components (15) was investigated showing that dehydroeburicoic acid (DeEA) was the most potent cytotoxic component. DeEA activated DNA damage and apoptosis biomarkers similar to FEA and also inhibited topoisomerase II. In HL 60 cells xenograft animal model, DeEA treatment resulted in a marked decrease of tumor weight and size without any significant decrease in mice body weights. Taken together, our results provided the first evidence that pure AC component inhibited tumor growth in vivo model backing the traditional anticancer use of AC in Asian countries.

 

Inhibitory effect of hericenone B from Hericium erinaceus on collagen-induced platelet aggregation

published online 20 July 2010.

Abstract

Platelet aggregation in the blood vessel causes thrombosis. Therefore, inhibitors of platelet aggregation promise to be preventive or therapeutic agents of various vascular diseases, including myocardial infarction and stroke. In the present study, we found that hericenone B had a strong anti-platelet activity and it might be a novel compound for antithrombotic therapy possessing a novel mechanism. Prior to this study, we examined anti-platelet aggregation activity of ethanol extracts of several species of mushrooms, and found that extract of Hericium erinaceus potently inhibited platelet aggregation induced by collagen. Therefore, we first fractionated the ethanol extract of H. erinaceus to identify the active substances. The anti-platelet activity of each fraction was determined using washed rabbit platelets. As a result, an active component was isolated and identified as hericenone B. Hericenone B selectively inhibited collagen-induced platelet aggregation, but it did not suppress the aggregation induced by U46619 (TXA2 analogue), ADP, thrombin, or adrenaline. Furthermore, hericenone B did not inhibit arachidonic acid- or convulxin (GPVI agonist)-induced platelet aggregation. Therefore, hericenone B was considered to block collagen signaling from integrin α2/β1 to arachidonic acid release. Moreover, we found that collagen-induced aggregation was inhibited by hericenone B in human platelets, similar to in rabbit platelets.

 

Articoli Novembre

 

Fungo Vs Uomo :Un fungo letale si riproduce sessualmente

COSÌ L’ASPERGILLUS FUMIGATUM, PRINCIPALE AGENTE DI INFEZIONE IN PAZIENTI IMMUNODEPRESSI, SVILUPPA PIÙ VELOCEMENTE LA FARMACORESISTENZA

 

Un gruppo di ricercatori in Irlanda e Regno Unito ha scoperto che un fungo letale, l’Aspergillus fumigatus, si riproduce sessualmente. La scoperta rappresenta una tappa fondamentale nello studio di questo agente patogeno, responsabile del decesso del 50% dei pazienti immunosoppressi infetti. Lo studio, finanziato in parte da una borsa Marie Curie erogata dall’Unione europea, è stato pubblicato sulla rivista Nature.Le spore del fungo A. fumigatus sono diffuse nell’atmosfera e di norma (anche se tutti ne inaliamo regolarmente alcune) un sistema immunitario in buona salute è capace di eliminarle. Un sistema immunitario indebolito, invece, viene facilmente colonizzato da questo fungo opportunista, che viene trasmesso per via aerea. L’infezione da A. fumigatus è la principale causa di mortalità nei pazienti affetti da leucemia o sottoposti a trapianto del midollo spinale.Le spore sono inoltre associate a gravi condizioni asmatiche e a sinusiti allergiche negli esseri umani, e ad aspergillosi (mummificazione) in colonie di api mellifere.Il fungo, che svolge un ruolo importante nel riciclo dei nutrienti del terreno, è stato descritto per la prima volta 145 anni fa ed è stato da allora oggetto costante di ricerca. Fino a questa recente scoperta, si era osservata nel fungo soltanto una forma di riproduzione asessuata. La riproduzione sessuata permette agli organismi di diversificarsi e adattarsi, un tratto particolarmente auspicabile nel caso dei funghi benefici. La scoperta di geni legati al sesso nei funghi patogeni ha importanti implicazioni per quanto riguarda il controllo delle infezioni micotiche.

Il dott. Paul Dyer dell’Università di Nottingham nel Regno Unito, un esperto dello sviluppo sessuale e delle variazioni demografiche dei funghi, ha commentato che la scoperta rappresenta al tempo stesso una buona e una cattiva notizia.”La cattiva notizia è che ora sappiamo che l’Aspergillus fumigatus può riprodursi sessualmente, il che implica una maggiore probabilità di sviluppare più velocemente resistenza ai farmaci antimicotici e una maggiore capacità di sopravvivenza delle spore in condizioni ambientali rigide. La buona notizia è che la recente scoperta del ciclo sessuale può rivelarsi uno strumento prezioso per gli esperimenti di laboratorio che mirano a capire secondo quali meccanismi il fungo sia causa di infezioni e scateni reazioni asmatiche.”

Il dott. Dyer e Céline O’Gorman, dottoranda dell’University College di Dublino, in Irlanda, hanno condotto un’approfondita analisi genetica su una popolazione ambientale irlandese di A. fumigatus, composta da 91 diversi gruppi isolati raccolti in 5 punti a Dublino nel 2005. Dopo aver osservato le strutture riproduttive sessuali del fungo al microscopio luminoso e al microscopio a scansione elettronica, hanno suddiviso i campioni in base a tutte le possibili combinazioni di “accoppiamento”. Le coppie di funghi sono state incubate al buio.I ricercatori hanno notato che la riproduzione era eterotallica, ossia la riproduzione sessuale avveniva soltanto quando gli isolati erano di polarità complementari. Il fallimento dei tentativi precedenti volti a indurre la riproduzione sessuale nell’A. fumigatus potrebbe essere dovuto al fatto che, secondo i risultati dello studio, le condizioni ambientali necessarie a favorire l’incrocio sarebbero fortemente specifiche.Secondo l’ipotesi più probabile, in natura, il processo avverrebbe all’interno di cumuli di compost, ma nessuno ha ancora mai studiato il fungo in queste condizioni, ha dichiarato O’Gorman a CORDIS Notiziario. Nel caso della ricerca in oggetto, gli scienziati hanno fatto crescere il fungo ad alte temperature, utilizzando una base di agar preparata ad hoc (con farina di avena). La coltivazione è inoltre durata sei mesi pieni, un periodo di tempo nettamente superiore a quello degli studi precedenti. La combinazione di questi fattori potrebbe aver permesso di replicare le condizioni dei cumuli di compost, ha commentato O’Gorman.Inoltre, l’analisi genetica dell’A.fumigatus ha portato a interessanti intuizioni. “Una volta compresa la base genetica dell’infezione sarà possibile sviluppare metodi per controllare e sconfiggere il fungo”, ha detto il dott. Dyer.”La scoperta del ciclo sessuale nell’A. fumigatus ha permesso di comprendere meglio la biologia e l’evoluzione della specie”, ha concluso lo studio. Contribuisce, infatti, a spiegare l’esistenza di così tante varietà di funghi (che non si avrebbero in caso di riproduzione clonale) e la presenza nel fungo di geni legati al sesso; nonché alcuni aspetti dell’evoluzione del genoma dell’A. fumigatus e la capacità delle spore di sopravvivere anche in condizioni ambientali avverse.Le scoperte fanno luce sugli aspetti biologici di questa specie micotica importante da un punto di vista clinico e sulla sua resistenza ai farmaci antimicotici. I risultati di questa ricerca porteranno, si spera, allo sviluppo di cure più efficaci e di nuove modalità di controllo dell’infezione da A. fumigatus.

 

Redazione MolecularLab.it (13/05/2009)

Fungo Vs rane

 

Nel corso degli ultimi due decenni il pianeta ha assistito alla progressiva scomparsa di alcuni degli animali più importanti e meno compresi della biosfera: gli anfibi. Un fungo parassita, il Batrachochytrium dendrobatidis, causa in rane,salamandre e altri anfibi una gravissima malattia della pelle, la chitridiomicosi, che in alcuni casi ha portato intere specie verso l’orlo dell’estinzione.Alcune popolazioni di rane, gli anfibi che sembrano più suscettibili al fungo, sono scomparse nel giro di poche settimane, intere specie sono svanite da tempo dal loro habitat naturale, ma alcuni anfibi come salamandre e gimnofioni (anfibi privi di zampe) sembrano possedere difese immunitarie più forti.Perchè alcune specie si ammalino e svaniscano completamente, mentre altre resistono all’aggressione del fungo, è ancora un mistero. Come lo è anche il fatto che alcune popolazioni di rane appartenenti ad una specie gravemente colpita dalla chitridiomicosi riescano a sopravvivere senza troppi problemi.Il B. dendrobatidis è un fungo che infetta la pelle degli anfibi, impedendo loro di respirare correttamente e di assorbire i nutrienti necessari alla sopravvivenza. E’ probabilmente originario dell’Africa, ed è stato identificato in un esemplare di rana Xenopus laevis risalente al 1938, specie spesso utilizzata come animale da terrario o da laboratorio. La sua diffusione può essere stata favorita anche dalla rana toro, una specie largamente diffusa e che ha la spiacevole tendenza a sfuggire dalla cattività.Il fungo causa generalmente la morte dell’ospite in 1-2 settimane, ma in determinate condizioni può sopravvivere per oltre sei mesi, dando modo agli esemplari infetti di contagiare altri anfibi. Considerando che il tasso di letalità può arrivare al 100% in alcune specie, che non c’è ancora alcuna soluzione definitiva per combattere il fungo, e che circa il 30% degli anfibi del pianeta sembra essere infetto (oltre 350 specie coinvolte), la situazione non è delle più semplici da risolvere.E’ facile intuire che comprendere il meccanismo di infezione e di resistenza alBatrachochytrium dendrobatidis sia un elemento chiave per attuare strategie di salvaguardia nei confronti degli anfibi. E’ per questo motivo che un gruppo di ricercatori della Cornell University ha intrapreso una serie di ricerche per identificare i possibili fattori genetici che rendono alcune rane resistenti al fungo letale.I ricercatori hanno prelevato alcune rane leopardo (Lithobates yavapaiensis) da cinque località diverse dell’Arizona per esporle al fungo che causa la chitridiomicosi, e verificare la loro resistenza all’infezione. Tutte le rane raccolte in tre differenti località sono morte, ma quelle prelevate da altre due popolazioni sono sopravvissute, e hanno sconfitto l’infezione nel giro di due settimane senza apparentemente riportare conseguenze sul lungo termine. Rane sostanzialmente identiche, ma risultati diversi.Il team ha inviduato le differenze genetiche tra le rane morte e sopravvissute nel Complesso Maggiore di Istocompatibilità (MHC), un sistema che negli anfibi consente di “presentare” elementi estranei all’organismo dando inizio ad una risposta immunitaria.”Tutti gli anfibi (in realtà, tutti i vertebrati) hanno i geni MHC che giocano lo stesso ruolo di ‘innesco’ per iniziare la risposta immunitaria” spiega Anna Savage, leader della ricerca. “Per cui la nostra scoperta che i geni MHC contribuiscono ai risultati della chitridiomicosi ha potenziali ramificazioni per tutte le specie di anfibi attualmente minacciate dal Batrachochytrium dendrobatidis”.Le rane sopravvissute sembrano appartenere a popolazioni esposte in modo massiccio al fungo fin dagli anni ’70, periodo in cui il B. dendrobatidis venne rilevato per la prima volta in Arizona. E’ possibile che queste rane riescano a resistere all’infezione perchè hanno già attraversato una durissima fase di selezione naturale in cui solo gli esemplari più forti sono sopravvissuti.Il passo successivo sarà quello di comprendere se è possibile che altre specie possano sfruttare questo meccanismo per sviluppare una resistenza al fungo. “Anche se il nostro studio alimenta nuove speranze sul possibile ritorno alla normalità degli anfibi dalla chitridiomicosi, non elimina la necessità di strategie di conservazione da parte dell’essere umano” spiega Savage. “La riduzione dell’habitat naturale, le specie invasive, i pesticidi e la degradazione dell’ecosistema sono altre ragioni importanti che portano all’estinzione degli anfibi; e se possiamo lavorare per fornire un buon habitat in modo tale che le dimensioni e la diversità genetica della popolazione di anfibi possano aumentare, loro avranno più possibilità di ottenere la capacità genetica di adattarsi al fungo Batrachochytrium dendrobatidis”.

Frog killer immune genes revealed

 

Fungo Vs biodiversità

 

Roma 24 Maggio  La scoperta è sensazionale ed alquanto agghiacciante: il 65 per cento delle estinzioni di specie animali e vegetali avvenute negli ultimi due decenni non è imputabile agli esseri umani (almeno non direttamente) bensì ai funghi. La scoperta è stata condotta da un gruppo di ricerca coordinato da Matthew Fisher dell’Imperial College London, in Gran Bretagna, e pubblicato su Nature.Finora il problema dei funghi era stato considerato di tipo esclusivamente agricolo (danni alle colture alimentali), adesso lo spettro si amplia anche all’ambiente.Il gruppo di ricerca sentenzia:” E solo monitorando la diffusione delle infezioni fungine e intervenendo preventivamente si potranno evitare conseguenze ancora peggiori per la biodiversità”. I dati sono sotto gli occhi di tutti : ogni anno vengono distrutte mediamente 125 milioni di tonnellate di mais, grano, riso, patate e soia”.Sul fronte ambientale, dai dati raccolti da ProMED eHealthMap, agenzie internazionali specializzate nel monitorare la comparsa e diffusione di nuove patologie, i ricercatori hanno scoperto che oltre 500 specie di anfibi e alcune di api ,tartarughe marine, pipistrelli e coralli sono seriamente minacciate da funghi patogeni.Un evento in continua crescita : dal 1995 al 2010, le infezioni fungine sono cresciute dall’ 1 al 7 per cento. Ciò è un problema  per la biodiversità, ma anche per il riscaldamento globale. La moria o il danneggiamento di alberi causati dai funghi si traducono in circa 230-580 mega tonnellate di CO 2 che non vengono assorbite dalla vegetazione e contribuiscono ad arricchire la cappa atmosferica che ci sta surriscaldando.Il problema di fondo risale all’attività dell’uomo con i suoi viaggi (per il commercio)  ha contribuito alla diffusione e proliferazione delle malattie fungine su scala mondiale a partire dalla metà del ventesimo secolo. Per questo,tuonano i ricercatori, la comunità internazionale deve impegnarsi ad aumentare i controlli alle frontiere sui prodotti di origine animale e vegetale (possibile veicolo di malattie) e a stanziare risorse per prevenire l’ulteriore diffusione di nuove infezioni.

 

Funghi Vs atmosfera: Anche i funghi producono metano

Un esperimento in condizioni controllate ha scoperto che alcune specie di funghi possono produrre metano. Questo risultato è importante non solo in ambito biologico ma anche in ambito climatico, visto che il metano è un gas serra molto più potente dell’anidride carbonica e che della rivoluzione industriale i suoi livelli in atmosfera sono triplicati, rendendo necessaria una conoscenza più approfondita su tutte le fonti possibili (red).Anche i funghi producono metano: è questa la sorprendente conclusione di uno studio pubblicato su “Nature communications” da Frank Keppler e colleghi del Max-Planck Institut per la chimica, a Mainz, destinata a rivoluzionare non solo le conoscenze di chimica e di biologia, ma anche gli studi sul clima.Il metano è un potente gas serra, 25 volte più efficace dell’anidride carbonica, e dalla rivoluzione industriale la sua concentrazione in atmosfera è triplicata: in poco più di 150 anni, i valori di concentrazione nella troposfera sono passati da 715 parti per miliardo in volume (ppbv) a 1800 ppbv. Le fonti di questo gas dovrebbero essere quindi tenute sotto stretto controllo. Attualmente, le stime parlano di una media di 500-600 teragrammi di metano immessi in atmosfera ogni anno, anche se rimane sconosciuta l’entità delle variazioni da un anno con l’altro.Funghi della classe dei basidiomiceti: questi organismi sono in grado di produrre metano con meccanismi per ora sconosciuti (Reg McKenna/Flickr/Creative Commons)Ma quali sono i meccanismi di formazione di questo gas? In passato si riteneva che il metano potesse formarsi solo per decomposizione di materiale organico in carenza di ossigeno. Questa convinzione è stata poi confutata dallo stesso gruppo di Keppler, che nel 2006 ha dimostrato come in realtà anche alcune specie di piante possano produrre metano in un ambiente ricco di ossigeno. Da allora l’interesse dello scienziato tedesco si è concentrato sulla ricerca di altre fonti nascoste e finora sconosciute.In quest’ultimo studio, gli scienziati hanno esaminato otto differenti specie di funghi appartenenti alla classe dei basidiomiceti. In questo modo hanno osservato il rilascio di metano usando un substrato di coltura marcato con isotopi: il glucosio nel terreno conteneva infatti una certa percentuale di C-13, un isotopo del carbonio che è stato poi rilevato nel metano rilasciato, al posto del C-14.Tutto questo ha consentito di stabilire che il metano era effettivamente prodotto dai funghi, dal momento che è stato possibile escludere il coinvolgimento nel processo di archea, microrganismi di cui è nota la capacità di produrre questo gas serra. Inoltre si è verificato che effettivamente il processo dipende dalle sostanze nel mezzo di coltura.

“Secondo i nostri studi precedenti, la quantità di metano liberato dai funghi dovrebbe essere piuttosto bassa rispetto a quello liberato da altre fonti. Quindi il loro contributo al riscaldamento globale dovrebbe essere trascurabile”, ha commentato Keppler.

Invece si deve ancora stabilire il rapporto tra i funghi e i batteri con cui spesso si associano. Molti batteri infatti usano come fonte di energia proprio il metano, ossidandolo per trasformarlo in acqua e anidride carbonica.Il grosso punto interrogativo, sottolineano gli autori dello studio, riguarda infine i meccanismi biochimici che consentono ai funghi di produrre metano, un tema che dovrà essere affrontato in successive ricerche, probabilmente con un respiro più interdisciplinare.

 

Funghi pro:

1)Pioggia

In Amazzonia, l’acqua è l’elemento naturale che domina l’ecosistema della foresta pluviale: ogni anno precipitano dai 2 ai 4 metri di pioggia, rendendo questa chiazza verde sudamericana uno degli ambienti più umidi del pianeta.Le grandi quantità di precipitazioni atmosferiche, tuttavia, potrebbero non essere soltanto la conseguenza della latitudine geografica della foresta amazzonica: un team del Max Planck Institute for Chemistry ha infatti scoperto che alcune particelle emesse nell’atmosfera dai funghi della foresta contribuiscono in modo sostanziale alla formazione di nubi e pioggia a bassa quota.”Per creare la pioggia, si ha bisogno di una superficie su cui l’acqua possa condensarsi. La biosfera di microrganismi e piante rilascia particelle che innescano la pioggia” spiega Christopher Pöhlker, a capo del team che ha effettuato la scoperta.Secondo Pöhlker, la cui ricerca è stata pubblicata di recente sulla rivista Science, il sistema amazzonico è influenzato da due meccanismi differenti: quello climatico, come già abbondantemente dimostrato, e quello biologico, che sembra in qualche modo modificare le condizioni atmosferiche naturali.Pöhlker ed il suo team hanno prelevato campioni di aria “pura” da una località sperduta nella foresta amazzonica, località che si suppone non sia mai stata raggiunta dall’essere umano. “Eravamo particolarmente interessati a capire come funzionavano le nubi ed il clima prima che l’uomo iniziasse ad inquinare” spiega Pöhlker.Ma anche l’aria più pura del pianeta contiene innumerevoli particelle in sospensione, di natura organica e non. Un ecosistema come la foresta amazzonica rilascia milioni di minuscole particelle, delle dimensioni di qualche molecola, ogni singolo giorno.Sono proprio queste particelle a formare uno strato costante di aerosol appena sopra le cime degli alberi, a circa 80 metri di quota. Queste minuscole particelle, inoltre, possono formare agglomerati di dimensioni maggiori, da 20 a 200 nanometri di diametro.Questi agglomerati contengono elevati livelli di sali di potassio, e sono circondate da un composto organico simile a gel. Una delle fonti più massicce di potassio sono i funghi, che usano acqua ad alto contenuto di potassio per lanciare in aria le loro spore; ma molte altre piante sono in grado di rilasciare nell’atmosfera questo elemento.”Ci sono ancora molte ricerche da fare per scoprire se i funghi sono realmente la fonte primaria, e capire il meccanismo e le quantità di sali di potassio emessi” afferma Pöhlker.Secondo una ricerca pubblicata nel 2011 da Markus Petters, docente della North Carolina State University e collaboratore di Pöschl, ben l’80% delle particelle più grandi di un micrometro in sospensione nell’atmosfera amazzonica sono di origine biologica. “Fondamentalmente, gli alberi ‘trasudano’ molecole organiche che reagiscono con dei composti nell’atmosfera, producendo minuscole particelle delle dimensioni tra i 20 e i 200 nanometri” spiega Petters.  “Queste particelle inseminano le nuvole. Inoltre, altre particelle biologiche formano i nuclei di ghiaccio per le nuvole”.”La foresta pluviale Brasiliana durante la stagione delle piogge può essere descritta come un bioreattore” spiegò Pöschl circa un anno fa, “il numero di gocce che cadono dalle nuvole sulla foresta pluviale Amazzonica è limitata dall’aerosol, cioè dipende dal numero di particelle di aerosol che sono rilasciate dall’ecosistema.”

 

Amazon Fungi Help Create Clouds & Rain

Funghi pro:

2) disinquinamento radioattività

Un fungo porcino, il ‘baio’ sarebbe un vero ‘divoratore’ di radioattività da cesio 137

Autore: newton.corriere.it

venerdì 9 novembre 2012 – letto [ 3757 ]

funghi porcini

La scoperta, fatta nell’ambito delle ricerche del dopo Cernobyl, ha evidenziato la predilezione di questo fungo per il cesio 137. Un rischio per l’alimentazione, ma una speranza per la decontaminazione dei terreni.Uno dei funghi più diffusi soprattutto in Francia, il ‘porcino baio’ (quello col cappello rosso, come nelle illustrazioni delle favole), conterrebbe un pigmento che ‘si nutre’ di cesio 137, prodotto radioattivo che finisce sul terreno soltanto dopo un incidente come quello di Cernobyl nel 1986.Se la notizia non farà piacere agli amanti dei funghi, la scoperta di alcuni scienziati francesi servirà per ‘decontaminare’ i terreni radioattivi.Dopo l’esplosione di Cernobyl, con la nube che passò su mezza Europa, Francia compresa, i funghi furono fra i principali prodotti finiti nel mirino dei misuratori di radioattività. Erano infatti, fra tutti i vegetali, quelli che più trattenevano il cesio 137.Dopo 16 anni, la radioattività nei porcini bai resta stranamente elevata, anche se non a livelli rischiosi per l’uomo. Finora questa anomalia veniva spiegata con la grande capacità dei funghi di catturare, nel suolo, il cesio che si trova nelle materie organiche di cui si nutrono.Ora, per la prima volta, un gruppo di chimici dell’università ‘Louis-Pasteur’ di Strasburgo, guidati dalla ricercatrice Anne-Marie Albrecht-Gary, ha identificato una molecola direttamente coinvolta nel processo di fissazione del cesio 137, il normadione A. Si tratta della stessa molecola che produce la colorazione tipica al cappello del fungo e che sarebbe una straordinaria divoratrice di cesio 137 che trova non solo nel terreno ma nell’atmosfera.

La scoperta, negli auspici degli scienziati, potrà essere direttamente utilizzata nella preparazione di nuovi metodi di decontaminazione dei terreni inquinati dalla radioattività.

 

Funghi pro:

3) disinquinamento acque

 

La notizia arriva dall’Università Americana di Harward; il fungo della Stilbella aciculosa sarebbe in grado di contrastare i pregiudizievoli effetti dell’inquinamento delle acque; gli scienziati sperano che questa scoperta possa contribuire alla tutela del patrimonio ambientale mondiale.Ecco una notizia che farà sorridere gli ambientalisti di tutto il mondo; nonostante, l’uomo si mostri sempre più spesso disinteressato alla tutela dell’ambiente, contribuendo, fra l’altro, alla disfatta ambientale del pianeta, fortunatamente, in natura c’è chi, al contrario, silenziosamente si impegna ininterrottamente al fine di ridurre l’inquinamento delle acque terrestri.Uno studio condotto presso l’Harvard School of Engineering and Applied Sciences ha dimostrato che un fungo ascomicete presente nelleacque inquinate, durante le fasi della sua riproduzione asessuata, produce determinati sali minerali che aiutano a ripulire l’ambiente dagli agenti metalli tossici.Gli esperti di Harvard hanno scoperto che il comune fungo Stilbella aciculosa, durante la differenziazione cellulare, in particolare durante la formazione delle strutture riproduttive asessuate, produce quell’ingrediente necessario, il superossido, un sottoprodotto della crescita fungina che viene creato quando l’organismo produce le spore, che aiuta il processo di depurificazione delle acque.Lo studio pubblicato  sulla rivista dell’Accademia di Scienza Americana e condotto dalla prestigiosa Università a stelle e strisce ha rivelato che il superossido, una volta rilasciato nell’ambiente, reagisce con il manganese, producendo un minerale altamente reattivo in grado di eliminare i metalli tossici, di degradare substrati di carbonio e di controllare la biodisponibilità dei nutrienti.Il manganese è un elemento versatile, presente nella crosta terrestre che gioca un ruolo importante nella “cattura” del carbonio, nella fotosintesi e nel trasporto e di sostanze nutrienti e contaminanti. Sotto forma di ione, dà luogo ad un minerale reattivo che è estremamente utile al fine di ripulire le acque da sostanze pericolose come arsenico, cadmio e cobalto.Lo studio è stato guidato da Colleen Hansel, il quale ha scoperto che questi funghi sono delle vere e proprie spugne naturali che ripuliscono le acque.Secondo gli esperti, la bonifica delle miniere di carbone potrebbe essere agevolata dai batteri e dai funghi attraverso il processo di ossidazione del manganese.

Hansel avrebbe dichiarato che: “è stato un enigma nel campo della biogeochimica dei metalli”. Infatti, per decenni nessuno è stato in grado di capire perché, o come, alcuni gruppi di batteri e di funghi ossidassero il manganese, visto che non lo facevano al fine di ottenere energia.

Lo stesso Hansel ritiene che questa scoperta, nonostante possa apparire una reazione laterale accidentale, potrebbe, invero, fornire benefici indiretti per l’organismo del fungo, data l’elevata reattività degli ossidi del manganese, e, di converso, contribuire sensibilmente alla pulizia delle acque dagli elementi inquinanti.

 

Copyright © 2008 JHSPRO.com

Il 7 maggio scorso in Francia è entrato in vigore un decreto che riconosce il Parkinson come malattia professionale e stabilisce esplicitamente un nesso di causalità tra questa patologia e l’utilizzo di pesticidi. L’associazione italiana per l’agricoltura biologica (AIAB) ha così commentato la notizia: “Il riconoscimento ufficiale rappresenta una vittoria per questa mobilitazione e acquisisce un carattere importante sia a livello simbolico che concreto aprendo la possibilità a sostegni finanziari per l’incapacità di continuare a lavorare. Un percorso cui dar seguito in Italia – si legge nel sito AIAB – aggredendo radicalmente le problematiche legate a produzione, uso e residui dell’agrochimica. Un esempio da seguire, dunque e una strada, quella dei pesticidi, da abbandonare.”

Sull’argomento si è dibattuto lo scorso 25 maggio nel convegno“Parkinson – Agricoltura e Ambiente dalla parte dei soggetti a rischio”, tenutosi a Noicàttaro (Bari). “Nel nostro paese – si legge nel report di Noicàttaro sviluppo – è stato dimostrato il rapporto di causalità tra l’esposizione ad alcune sostanze utilizzate in agricoltura e la comparsa di sintomi quali abbassamento del numero di globuli bianchi nel sangue, dermatite allergica da contatto, tremori o vere e proprie malattie come il Parkinson e il linfoma non Hodgkin.” “Chi ha contratto una di queste malattie – spiegano gli esperti – deve dimostrare di essere stato esposto a queste sostanze e specificare la durata dell’esposizione. E’ possibile tuttavia avviare procedimenti privati per ottenere un riconoscimento per malattie non comprese nella tabella dell’INAIL, ma l’onere della dimostrazione spetta al paziente.”

Il morbo di Parkinson è la malattia neurologica degenerativa più diffusa dopo l’Alzheimer, in Italia ogni anno si contano 6 mila nuovi casi.

 

fonte Le Monde.fr

 

 

 

 

Articoli Ottobre

 

1) Mushroom extract improves cancer survival in dogs

Dogs with hemangiosarcoma that were treated with a compound derived from the Coriolus versicolor mushroom had the longest survival times

ever reported for dogs with the disease.

These promising findings offer hope that the compound may one day offer cancer patients – human and canine alike – a viable alternative or

complementary treatment to traditional chemotherapies.The research was conducted at the School of Veterinary Medicine, University of Pennsylvania.

Researchers – Dr. Dorothy Cimino Brown, professor and chair of the Department of Clinical Studies and director of the Veterinary Clinical

Investigation Center & Dr. Jennifer Reetz,attending radiologist in the Department of Clinical Studies – published their findings in an open-access article in the journal Evidence–

Based Complementary and Alternative Medicine.

Evidence-Based Complementary and Alternative Medicine

Volume 2012 (2012), Article ID 384301, 8 pages

doi:10.1155/2012/384301

 

 

2) Extract of white button mushroom affects skin healing and angiogenesis.

Lam WP, Wang CM, Tsui TY, Wai MS, Tang HC, Wong YW, Lam LH, Hui LK, Yew DT.

Source Brain Research Centre, School of Biomedical Sciences, Faculty of Medicine, The Chinese University of Hong Kong, Shatin, New Territories,

Hong Kong.

Abstract White button mushroom extract was examined in this study on (1) its potential effect on angiogenesis in chorioallantoic culture and

(2) its recovering effect on the skin after injury in the ICR mice. Methods used included TUNEL assay on apoptosis

immunohistochemistry for vascular endothelial growth factor (VEGF), proliferative cell nuclear antigen (PCNA), epidermal growth factor

(EGF),transforming growth factor β (TGF-β), and immune factor CD4 and western blotting.

The results of chorioallantoic culture showed that the mushroom treatment led to significant increase in densities of VEGF sites.

In the skin injury, ICR mice model increased EGF, PCNA, and collagen fibers, along with decrease of TUNEL positive apoptotic cells and

limited reaction of TGF-β and CD4 indicated that white button mushroom extract appeared to have beneficial effects on skin in regeneration and after injury. Microsc. Res.

Tech. 2012. © 2012 Wiley Periodicals, Inc.

 

 

3) Tè verde possibile cura contro il cancro alla pelle

Un team di ricercatori scozzesi ha ideato un nuovo metodo di somministrazione di una sostanza estratta dal tè verde e che si è rivelato in grado di curare alcuni casi di tumore alla pelle. Alcuni casi di tumore alla pelle sono stati curati efficacemente da alcuni ricercatori scozzesi dell’ Università di Strathclyde e Glasgow mediante l’utilizzo di un composto chimico che si trova nel tè verde, un importante passo in avanti nell’individuazione di possibili cure per i soggetti malati di cancro.Il team di ricercatori, in particolare, ha spiegato la connessione esistente tra cancro alla pelle e tè verde in un articolo pubblicato sulla rivista Nanomedicine. In realtà, l’efficacia del tè verde contro il tumore alla pelle era già stata provata da tempo, tuttavia l’applicazione in concreto di questa soluzione fino a prima di questi esperimenti non aveva portato a grandi risultati, in quanto portare i composti del tè al tumore tramite una tradizionale somministrazione intravenosa non si era rivelato un metodo molto efficace, dal momento che in questo modo al tumore arriva una quantità di estratto insufficiente.La novità, dunque, sta nel metodo di somministrazione della sostanza. I ricercatori scozzesi, infatti, sono riusciti a sviluppare un metodo specifico per applicare l’estratto, conosciuto come gallato di epigallocatechina (EGCG), direttamente nei tumori ideando un sistema di somministrazione mirato che funziona fondendo l’estratto con le proteine che portano molecole di ferro, che a loro volta sono assorbite dal tumore. L’efficacia di tale metodo è stata confermata attraverso uno studio in laboratorio su due diversi tipi di cancro della pelle: circa due terzi dei tumori cui era stato somministrato si sono ridotti o sono scomparsi nel giro di un mese, senza che siano stati riscontrati effetti collaterali a carico dei tessuti sani.Come ha spiegato la dott.ssa Christine Dufès dell’Università di Strathclyde, che ha coordinato il team di ricercatori, i risultati di questa ricerca potrebbero portare a nuove cure per quella che è ancora una delle principali malattie mortali in molti paesi. Basti pensare ogni anno si verificano in tutto il mondo tra i 2 e i 3 milioni di casi di cancro alla pelle non melanoma e circa 132.000 casi di cancro alla pelle melanoma.

 

4) OTZI  e il mistero del poliporo

Della celeberrima ‘Mummia dei ghiacci’ o ‘Uomo del Similaun’, tradizionalmente chiamato Őtzi, la gente sa ormai quasi tutto, perchè gli studiosi lo hanno voltato e rivoltato, sottoponendolo ad una gamma di analisi sterminata e a sofisticatissimi esami endoscopici e bioptici, oltre che a comparazioni paleoantropologiche, a studi paleoclimatici e archeobotanici. Di pari passo, anche il suo ‘corredo’- ovvero il materiale rinvenuto a poca distanza dal suo corpo congelato e mummificato naturalmente- ha subìto la stessa sorte. Sono emersi molti dati, talvolta sorprendenti, che hanno consentito di fare luce sull’ambiente in cui viveva quest’uomo, oltre tremila anni prima di Cristo. Ma diversi misteri restano, e ci mancherebbe non fosse così! La Ricerca si arresterebbe e diverrebbe mero accanimento scientifico mentre lo scopo è quello di capire il nostro passato. Quando si presentano casi come questo, in cui un essere umano di 5.300 anni è pervenuto a noi praticamente intatto, grazie al ghiaccio che lo ha ricoperto e congelato per millenni, la scienza giustamente esulta ed è chiamata a dare risposte. Ne venissero ritrovate altre, di mummie analoghe, Őtzi resterebbe sempre la più importante. Per questo a lui è riservata un’intera ala del Museo Archeologico dell’Alto Adige di Bolzano, che abbiamo avuto il piacere di visitare recentemente. Chiuso in una cella con un microclima idoneo alla sua conservazione, lo si osserva da una semplice finestrella 40 x 40 cm per pochi minuti (per far posto a tutti i visitatori che attendono), mentre il suo corredo è esposto come reliquia nelle vetrine.Dal 3 ottobre 2009 e fino al 10 maggio del 2010, anche la città di Bergamo dedica una mostra all’Uomo del Similaun, che pure abbiamo avuto il piacere di visitare. Inoltre, in corrispondenza delle giornate di Bergamo Scienza (3 – 18 ottobre 2009), sono state organizzate anche due conferenze a tema, ad una delle quali abbiamo partecipato, quella tenuta dal prof. Klaus Oeggl[1], specializzato in archeobotanica.Alcune parole del professore, unite alle nostre recenti visite, hanno dunque acceso in noi il desiderio di dedicare ad Őtzi una pagina nel nostro sito, dando un certo spazio ad alcune curiosità e ad alcuni misteri che ancora restano aperti. La consulenza dell’amico Gianluca Toro, chimico, ci ha supportato nelle considerazioni di tipo micologico che sviscereremo nel prosieguo dei nostri “due passi”, sempre tesi a considerare gli aspetti meno inflazionati di un dato argomento. Superfluo perciò dilungarci su notizie che ormai sono storia; ne accenneremo solamente.La zona, circolettata, dove fu scoperto il corpo di Őtzi (foto scattata, con autorizzazione, alla Mostra ‘L’uomo venuto dai ghiacci’, Bergamo)Una data palìndroma Il 19 settembre 1991 una coppia di escursionisti tedeschi (eccellenti alpinisti), Erika ed Helmut Simon, scorse, a 3.200 metri di altitudine, sul massiccio dell’ Őtzal, un cadavere umano che emergeva dalla neve congelata. La loro meta era il rifugio del Similaun, e in breve dovevano raggiungere il Giogo di Tisa, un valico che è appena segnalato sulle mappe, quasi avesse poca importanza, sul confine tra Italia ed Austria. Quella data, anzitutto, ha destato curiosità, a posteriori: 19/9/1991: è una di quelle che si possono leggere da sinistra a destra e viceversa, palindroma! Qualcuno, a suo tempo, disse che era un segno del destino: se i due escursionisti fossero passati il giorno prima, la neve avrebbe coperto ancora la mummia e non l’avrebbero mai notata. Ma quel giorno il sole – sul finire di un ‘estate particolarmente calda – fece sciogliere quel tanto che bastava la neve, perchè il sonno di quell’ uomo millenario venisse scoperto (qualcuno, e capiremo dopo perchè, disse ‘violato’).Visto che si trovava sul massiccio dell’ Őtztal, verrà quasi subito chiamato Őtzi, la mummia dei ghiacci (o Iceman) ma anche Uomo del Similaun. I due scopritori, giunti al rifugio, riferirono del ritrovamento; ma dato che non era la prima volta che cadaveri umani emergevano dai ghiacci (sfortunati alpinisti o sciatori travolti da valanghe), nessuno si mosse immediatamente, tanto più che la competenza territoriale era dubbia:toccava agli italiani o agli austriaci? Inizialmente se ne occuparono i secondi, ed è per tale ragione che per anni la mummia del Simulaun verrà conservata all’Istituto di Anatomia di Innsbruck e solo in un secondo momento verrà definitivamente trasferita a Bolzano (quando si farà chiarezza sui confini territoriali e sulle competenze, vista anche l’importanza del …soggetto!).Il famoso alpinista Reinold Messner  in compagnia di un amico e di una guida, Kurt Fritz, venuto a conoscenza di questo ritrovamento, decise di andare a vederlo e comprese che non si trattava di un escursionista recentemente scomparso in quanto- dando un’occhiata ai reperti e all’abbigliamento rimasto- capì che non erano di un’epoca che la memoria ricordasse. Da quel momento in avanti il sonno di Őtzi non trovò più il silenzio della montagna a fargli compagnia. Dal martello pneumatico usato incautamente per estrarlo dalla sua tomba di ghiaccio, in cui era intrappolato dalla cinta in giù (operazione che gli causò anche una abrasione alla coscia), alle successive operazioni di analisi scientifica, l’uomo dei ghiacci venne esaminato da decine di esperti, la sua immagine fece il giro del mondo e divenne un caso assoluto. Soprattutto man mano arrivavano i dati che, nel corso del tempo, hanno subito vari aggiustamenti, perfezionandosi le tecniche di indagine. Con il passare degli anni, infatti, sono state avanzate teorie che poi sono state smentite, mentre ne sono comparse di nuove e sorprendenti.Dal 1991 al 1998 l’uomo del Similaun fu studiato dalla Facoltà di Preistoria Alpina dell’Università di Innsbruck, poi soppressa nel 1998; al suo posto è stato creato nel 2007 l’ Istituto per le mummie e l’Iceman (EURAC), che coordina e sostiene la ricerca sull’Uomo venuto dal ghiaccio ed altre mummie, collaborando con il Museo Archeologico dell’Alto Adige. Visitando il luogo dove oggi Őtzi riposa, senza che possa mai essere spostato, e seguendo le ultime conferenze in materia, possiamo scrivere qualche notizia in merito alle ultime scoperte e ai nuovi misteri emersi.Ricostruzione della situazione al momento del ritrovamento della mummia di Őtzi (foto scattata, con autorizzazione, alla mostra “L’uomo venuto dai ghiacci”, Bergamo): il corpo si presentava di schiena, con il volto affondato nel ghiaccio.

Certezze e interrogativi

Oggi sappiamo che egli visse nel Neolitico, circa 5.300 anni fa e che morì  attorno ai 45-46 anni d’età per un’emorragia all’arteria ascellare, causata da una ferita da punta di freccia (scoperta nel 2001, a distanza di ben dieci anni dal ritrovamento), scagliata alle sue spalle. Il nostro Uomo dei ghiacci fu ucciso. Da chi e perchè ovviamente non si sa, anche se si fanno supposizioni (ci sono esperti per ogni enigma!). La smorfia di dolore eterna che gli è rimasta sul volto è abbastanza eloquente, a nostro avviso. Ma il sangue fuoriuscito dalla ferita dov’è finito, dal momento che non ne è stato trovato? Inoltre, recentemente si è determinato che le tracce ematiche umane scoperte vicino al corpo non sono ‘da contaminazione’ (cioè di epoca moderna) e non apparterrebbero a Őtzi (il tipo di DNA è diverso), sebbene siano del medesimo ceppo genetico (popolazione sub-alpina di una stessa etnia). Era quello di persone contemporanee all’uomo del Similaun e forse, in via dubitativa, dei suoi aggressori? Si tratta del DNA di 4 persone diverse, corrispondenti ad altrettante tracce di sangue:una sulla parte posteriore del mantello, un’altra sulla lama di selce del pugnale e due sulla punta di freccia. Ma se il suo pugnale è stato trovato ancora nel fodero, è evidente che Őtzi non lo ha usato per una eventuale difesa (avrebbe infatti usato le mani per proteggersi, poichè sono stati trovati dei tagli su di esse). Il sangue altrui come è dunque finito sul suo stesso pugnale?

Particolare del volto di Őtzi nella sua cella del Museo Archeologico di Bolzano (foto autorizzata per la pubblicazione, vedi a fondo pagina). Il braccio sinistro è ‘fissato’ in quella posizione dal momento del decesso.

Viveva con ogni probabilità più a sud di dove è stato ritrovato, nell’area di Bressanone (BZ), appartenendo forse ad una cultura sub-alpina. La tesi che lo riteneva un pastore è superata, come ha affermato il prof. Klaus Oeggl in conferenza. Ma capire chi fosse veramente è arduo. Aveva delle frecce molto più lunghe del necessario, nella faretra, perché? L’arco in legno di tasso (il migliore, che ancora oggi si usa) non era finito, l’uomo lo doveva forse approntare mentre sostava sulla montagna, credendosi ‘in pace’…! Il suo equipaggiamento prevedeva anche un pugnale ben lavorato e un’ascia con lama in rame, dettaglio che fa capire che doveva essere un personaggio di rango elevato. E’ stato possibile raccogliere campioni dell’ultimo pasto nel suo stomaco, scoprendo di cosa si era cibato ed è emerso, dalle ultime ricerche, che non è vero che il suo nutrimento fosse esclusivamente vegetale. La presenza di fibre muscolari ha permesso di risalire al fatto che avesse mangiato carne di Cervo elaphus e di Capra ibex. Nello stomaco c’erano anche resti di pappa di farro e verdure. Inoltre, aveva bevuto acqua dal ghiacciaio.

Metà del naso della mummia manca, l’orbita sinistra sembra vuota mentre, in quella destra, è ancora presente un occhio azzurro, forse strabico. Le orecchie si sono seccate e quella di sinistra è piegata. Gli esami radiografici hanno permesso di cogliere una rarità nel suo apparato scheletrico:era privo della coppia della dodicesima costa, cosa che non gli creava alcun problema, mentre aveva subìto delle fratture costali all’emitorace sinistro, che si erano rimarginate completamente,  mentre nella parte destra ci sono fratture alle coste non rimarginate. Gli studiosi si interrogano sulle modalità e sull’epoca in cui l’Uomo dei ghiacci se le procurò. E’ possibile che possa essere stata la pressione del ghiaccio a causargliele? Tra l’altro quest’ultima eventualità avrebbe anche determinato le deformazioni del suo cranio.

Őtzi non ha l’epidermide esterna e non ha i capelli. Sulle sue unghie sono state rilevate tre linee di Beau, che corrispondono a tre diversi momenti di stress da lui subiti, avvenuti con ogni probabilità 8, 13 e 16 settimane prima della sua morte. L’ultimo attacco fu il più pesante. Tuttavia gli studiosi non hanno identificato la malattia cronica che causò la formazione di questi solchi trasversali sulle unghie (ma forse potrebbero essere in relazione con la parassitosi intestinale, come alcuni ricercatori ipotizzano) In realtà, oggi sappiamo che le linee di Beau possono anche essere generate da altri fattori (come la carenza di zinco) o possono essere indotte farmacologicamente (rientrano tra gli effetti collaterali più frequenti dei chemioterapici). In assenza di dati anamnestici (come è evidente nel caso di Őtzi!), possiamo dire in modo generico che le linee di Beau indicano una malattia pregressa; se sono presenti su tutte le unghie di una mano o di entrambe le mani, potrebbero segnalare che l’individuo è affetto da una grave patologia. E’ interessante osservare come, in alcune circostanze particolari (ad esempio in caso di un’emorragia con pericolo di vita ed ipotensione), si possano formare le linee di Beau in tutte le unghie. Non è chiaro se Őtzi presentasse questo fenomeno su una o più unghie, ma il fatto che egli morì proprio per un’emorragia acuta, potrebbe accordarsi con la seconda ipotesi.La sua morte è avvenuta –secondo gli studi più recenti- in primavera, contrariamente a quanto si riteneva. Infatti, secondo il prof. Oeggl, il processo di  post-mortem è passato attraverso tre fasi: immersione in acqua per 4-6 settimane, disseccazione con perdita del 30% di acqua, e successivo incapsulamento tra la neve e il ghiaccio (che ha decretato la sua conservazione così come si trovava in quel momento). Őtzi è considerato una mummia umida.Tutto il repertorio di oggetti che l’uomo aveva con sè denota che non fosse affatto uno sprovveduto:si era preparato come quando noi ci accingiamo a fare una trasferta, portando le cose che sappiamo servirci in determinate condizioni (chiaramente immedesimiamoci cosa potesse contare maggiormente alla sua epoca). Molti sono concordi nel definirlo un saggio, perchè – oltre al fisico- forse  Őtzi badava anche allo spirito, a quel concetto astratto e vitale che è in ciascun individuo. Tra gli aspetti curiosi del suo aspetto fisico spuntano sedici tatuaggi di colore nero-blu, sottoforma di piccole linee sia parallele che cruciformi, incisi in zone corporee corrispondenti a quelle che gli agopuntori cinesi conoscono bene, essendo ritenute ‘nodali’: sapendole opportunamente stimolare, allevierebbero dolori o squilibri organici. Ben 9 tatuaggi si trovano sul cosiddetto ‘meridiano della vescica’, mentre gli altri sui meridiani del fegato, della milza e della cistifellea. Ma l’agopuntura è stata scoperta almeno duemila anni dopo la morte di Őtzi! Egli dunque sapeva – o intuiva – che tatuandosi su zone particolarmente dolenti (nel suo caso le aree articolari), ne avrebbe ricevuto giovamento e benessere. Potremmo pensare che da un lato l’azione fosse magico-apotropaica, dall’altro una forma di terapia vera e propria. Era consapevole di avere delle patologie e le curava. Con ogni probabilità questa usanza  non era isolata: poteva essere comune a tutto il suo clan di appartenenza o la presenza dei tatuaggi ne decretava il rango, lo ‘status sociale’? I tatuaggi dell’Iceman furono eseguiti con polvere di carbone vegetale, in due possibili modi: previa incisione della pelle con una lama di selce, si è provveduto poi a marchiarla bruciando delle erbe sull’incisione stessa oppure applicando un impasto a base di carbone misto a saliva o acqua.

Nulla si sa invece a che cosa servisse la pietra bianca che l’uomo portava al collo, agganciata ad una sorta di gomitolo di cordicelle di cuoio intrecciate: un amuleto, un oggetto decorativo o funzionale?

Ricostruzione dell’abbigliamento, dell’equipaggiamento e della conformazione fisica che aveva l’Uomo del Similaun (foto autorizzata dalla mostra di Bergamo)

Tra gli oggetti facenti parte dell’equipaggiamento, alcuni meritano una particolare attenzione, per meglio comprendere il suo mondo tecnico-pratico ed eventualmente magico-religioso.

 

I primi sono costituiti da due forme sferoidali delle dimensioni di una noce, simili tra loro; ognuno di essi è infilato su un laccio di cuoio. Le caratteristiche di base e l’analisi microscopica, effettuata in parallelo su moderni campioni di riferimento dipolipori, hanno permesso di identificarli con il poliporo della betulla (Piptoporus betulinus), o eventualmente con il poliporo del larice (Lariciformis officinalis). Quest’ultimo contiene agaricina, per cui, se si fosse trattato effettivamente di questa specie, si sarebbe dovuta evidenziare la presenza di questo composto nei due reperti, ma non è stato così. D’altra parte, è stato individuato l’acido poliporenico C, specifico del poliporo della betulla. L’identificazione proprio come poliporo della betulla è stata confermata da ulteriori analisi chimiche, utilizzando moderni campioni di riferimento dei due polipori, come confronto. Il terzo oggetto è rappresentato da un cosiddetto ‘materiale scuro’ raggrumato che formava la maggior parte del contenuto di una piccola borsa di cuoio, comprendente anche oggetti affilati di selce, una punta sempre di selce e un attrezzo sottile di osso. Inizialmente, si pensò che questo materiale scuro fosse una resina probabilmente usata per riparazioni varie. L’essiccazione ha evidenziato una struttura fibrosa e l’analisi microscopica ha permesso di identificare un altro poliporo. Il fatto che questo materiale fosse ben conservato nella borsa, insieme a oggetti di selce, fa presupporre che si trattasse di un fungo usato come esca per il fuoco (2). Anche in questo caso, il confronto tra il reperto e moderni campioni di riferimento (specie di Fomes, Ganoderma e Gleophyllum), sia a livello microscopico che chimico, ha permesso di individuare il fungo dell’esca (Fomes fomentarius). Con esso, molto probabilmente, Őtzi riattizzava le braci che trasportava con sè, custodite all’interno di una sacca vegetale. In tal modo aveva la sicurezza di potersi accendere un fuoco per riscaldarsi ovunque si fosse trovato, ed eventualmente cuocere della carne, allontanare animali indesiderati, etc. Ma il poliporo della betulla?

Il poliporo del mistero

Anzitutto la presenza di questo fungo tra gli oggetti che Őtzi portava con sè è confermata sia dal materiale documentale esposto in mostra a Bergamo, sia al Museo Archeologico di Bolzano, dove il reperto è presente. L’Uomo dei ghiacci ne usava quantità opportune per combattere una parassitosi intestinale di cui era affetto (come hanno confermato le analisi). A dosi diverse, il potere del fungo può essere letale, in quanto è velenoso. L’impiego del poliporo della betulla come esca o come cibo è improbabile. In quest’ultimo caso, la forma, le dimensioni e il modo in cui i due frammenti sono presentati non sembrano compatibili con una fonte di cibo, oltre al fatto che il gusto non è proprio piacevole. Anche l’uso ornamentale sembra difficilmente sostenibile. Per cui si può ben contestualizzarne l’impiego da parte di Őtzi, come antiparassitario intestinale ma durante la conferenza del prof. Oeggl si è presentata una sorpresa.

Gli abbiamo infatti chiesto chiarimenti sulla presenza di questo fungo, ma egli ci ha risposto che non è stato identificato! Ma come? Se lo abbiamo anche visto! Őtzi – ha specificato lo studioso- aveva una massiccia  parassitosi intestinale; sono state infatti isolate 10.000 uova di tricocefalo (Trichuris trichiura), il quale provoca dispepsia e diarrea. Dal canto nostro, sappiamo che nei casi gravi questa affezione può portare a forte disidratazione e ad anemia per diarree sanguinolente; i dolori addominali sono generalmente scontati e c’è anche un incontenibile prurito anale. A quanto ha detto l’esperto, era un’affezione comune ai tempi in cui visse Őtzi. Non fatichiamo a crederlo, questo, poichè la femmina del tricocefalo – che alberga come parassita indesiderato nell’ intestino- depone migliaia di uova ogni venti giorni circa, che vengono eliminate con le feci. Ai tempi di Őtzi c’è da immaginare che ciò avvenisse in condizioni igieniche ‘naturali’, spargendo il pericoloso parassita nell’ambiente, nel suolo e dunque nei cibi. Ripetendo il ciclo e dando luogo a continue reinfestazioni. Per curare questa parassitosi, però, ha asserito Oeggl, si usavano le felci (che a suo dire sono state impiegate come rimedio fino ad un secolo fa). Del poliporo della betulla, pertanto, nessuna traccia. Possibile? Forse non abbiamo posto la domanda chiaramente o forse abbiamo frainteso la risposta? Ma non siamo stati i soli a sentirla… Ecco un altro mistero da chiarire!

In ogni caso, abbiamo svolto una ricerca per conoscere meglio questo fungo, il poliporo della betulla per il quale, a parte il caso presente, non sono noti ritrovamenti archeologici, o comunque indicazioni sul possibile uso in tempi preistorici. E’ una specie commestibile, per lo meno da giovane, ed è impiegata come tale in Nord America, Asia ed Europa. I Kamchadal della Siberia lo usavano come cibo, consumandolo gelato dopo averlo frantumato. Nella medicina popolare russa, era un rimedio contro il cancro, mentre sembra che il suo thè combatta la fatica, stimoli il sistema immunitario e abbia effetto calmante. Gli abitanti di una zona del Surrey, in Gran Bretagna, lo tagliavano in piccole strisce per poi usarlo come emostatico e le ceneri erano sfruttate in qualità di antisettico. L’uso come esca per il fuoco non sembra che fosse molto diffuso, essendogli preferito il fungo dell’esca propriamente detto, superiore in efficacia anche ad altre specie di polipori come Daedalea quercina, Laetiporus sulphureus var. miniatus e Phellinus ignarius. Una particolare applicazione era quella degli apiculturisti inglesi, che anestetizzavano le api bruciando questo poliporo, ma anche Daedalea quercina.

I principali composti farmacologicamente attivi sono triterpeni (in particolare l’acido poliporenico A, B e C), steroli e l’acido tumulosico. L’acido poliporenico A possiede attività antimicrobica e antiflogistica, l’acido poliporenico C avrebbe mostrato anch’esso attività antimicrobica, contro batteri del genere Mycobacterium e il Bacterium racemosum, mentre in generale l’estratto del fungo è efficace contro il Bacillus megateterium. Altri triterpeni  inibirebbero la crescita di cellule neoplastiche maligne, mentre la piptamina avrebbe effetto antibiotico, soprattutto contro il Bacillus subtilis ed Escherichia coli, oltre che molluschicida contro Biomphalaria glabrata. Sono stati anche individuati betulina e acido betulinico, che sembrerebbero estratti e concentrati direttamente dalla betulla su cui il fungo cresce. La betulla è usata in fitoterapia per la qualità depurativa, digestiva, febbrifuga, antiartritica e contro i parassiti intestinali e le piaghe. In particolare, l’acido betulinico possiede azione antibiotica e sarebbe tossico per il melanoma maligno, senza attaccare le cellule sane. Ulteriori ricerche hanno poi messo in luce l’attività antiparassitaria (in particolare contro il tricocefalo prima menzionato) antinfiammatoria (in particolare contro l’infiammazione cronica della pelle) e la capacità antivirale contro il vaiolo bovino, oltre a quella di prevenire la poliomielite nel topo bianco e nelle scimmie e di contrastare lo sviluppo dei tumori.

Uova di Trichuris trichiura (verme tricocefalo), parassita intestinale umano, visto al microscopio

Non è da escludere un uso magico-spirituale, legato a quello medicinale; infatti, presso certe culture, l’azione medicinale dei polipori in generale è spesso associata all’idea di forza e saggezza. Consideriamo, a titolo di esempio, Haploporus odorus.Questo poliporo è riverito dagli Indiani Americani Blackfoot, Cree e altre tribù. Con esso si fabbricano vestiti sacri e altri oggetti a uso sciamanico, tutti simboli di potere spirituale. Si usa anche per impartire protezione e allontanare le malattie portandolo al collo o bruciandolo. Tra i Cree, si usa come incenso, fumigandolo per “aprire le porte al mondo dello spirito e permettere di vedere e sentire gli spiriti”. Probabilmente, avrebbe anche un uso medicinale.

Nel caso del poliporo della betulla, quest’uso magico-spirituale può essere posto in relazione con la betulla stessa, pianta considerata sacra forse perché un fungo psicoattivo, l’agarico muscario (Amanita muscaria), cresce associato ad essa. Potrebbe essere che le proprietà dell’agarico muscario siano state simbolicamente trasferite sul poliporo della betulla, diventando una sorta di sostituto, ma privo di effetti psicoattivi. Anche il fungo dell’esca cresce sulla betulla e potrebbe avere ugualmente rivestito un valore magico-spirituale, considerando anche che il fuoco fisico potrebbe corrispondere al fuoco spirituale (illuminazione) spirituale, raggiungibile tramite l’ingestione dell’agarico muscario. In ogni caso, l’uso come specie allucinogena del poliporo della betulla non trova riscontro nella letteratura disponibile.

La maledizione di Őtzi:una leggenda metropolitana?

Tempo fa ci era capitato di leggere un singolare libro, scritto da due autori francesi (Guy Benhamou e Johana Sabroux), intitolato La maledizione di Őtzi, che narra della inquietante sequela di personaggi morti in strane circostanze dopo aver avvicinato l’Uomo dei ghiacci a vario titolo. Sembra un po’ la leggenda metropolitana che accompagna un’altra illustre mummia, più ‘giovane’ di Őtzi di svariati millenni, quella del faraone egiziano Thutankamon, morto giovinetto nel XIII secolo a. C., attorno al cui ritrovamento (nel 1922) sono aleggiate cronache di misteriose morti, evocando una sorta di maledizione verso tutti quelli che hanno osato disturbare il suo sonno eterno (si dimentica però che lo scopritore della tomba faraonica, Howard Carter, godette per diversi lustri di ottima salute). Pare che, nella circostanza egiziana, entri in gioco un tipo di batterio che vive all’interno di cripte funerarie o simili e che, all’occorrenza, potrebe divenire fatale per coloro che si avventurano senza alcuna precauzione all’interno di questi ambienti, dopo millenni. Ma nel caso di Őtzi, i batteri non c’entrano nulla. Sono episodi del tutto casuali, dicono gli scettici, indipendenti l’uno dall’altro e soprattutto da Őtzi, chiaramente. Ma per altre persone, come i due citati autori, un nesso con la mummia del Similaun ci sarebbe eccome. Il motivo risiederebbe nel fatto che non voleva essere ritrovata, continuando il suo sonno eterno.

Il primo della lista sarebbe stato il medico legale che per primo maneggiò Őtzi, il dr. Rainer Henn (1928-1992), il quale aveva inizialmente scambiato il cadavere emerso dal ghiaccio per quello di un escursionista travolto da qualche valanga in epoche recenti (non fu il solo). Nonostante fosse un professionista navigato, il dr. Henn – stando a quanto scrivono Benhamou e Sabroux-  venne ripreso dalle telecamere austriache senza i guanti, durante le manovre di estrazione di quel corpo mummificato dal ghiaccio. Pare che anche ciò che si trovava attorno al corpo venne raccolto in fretta e furia del dottore e messo in un sacco, la mummia stessa maneggiata senza troppi convenevoli (non sapeva della sua antichità, molto probabilmente), e trasferita all’Istituto di Anatomia di Innsbruck, dove venne in seguito contestualizzata correttamente e trattata secondo tutti i criteri del caso. Qualche mese dopo, nel luglio del 1992, il dr. Henn e sua moglie si apprestavano a passare le vacanze a Nőtschim-Galital, vicino alla Carinzia, dove era stato invitato a presentare una conferenza dal titolo “Come procedono le ricerche sull’uomo dei ghiacci”. Ma non potè mai farlo: la sua auto venne investita da un’altra che procedeva in contromano ad alta velocità e per lui fu la fine. Era il 25 luglio 1992.

Nel luglio del 1993 morì invece la guida esperta Kurt Fritz (1960-1993), che aveva accompagnato Messner e Kammerlander sul luogo dove si trovava Őtzi, un paio di giorni dopo che i  coniugi Simon l’avevano scoperto. Ironia della sorte, Kurt morì sulla montagna che più amava, l’Ortles, travolto da una valanga staccatasi improvvisamente dalla cima e spinta già da una raffica di vento più violenta delle altre. Anche lui, come Őtzi, sepolto dalla neve.

Nonostante i tanti anni di distanza, anche la morte di Rainer Hőlzl (1962-2004), il giornalista che il 23 settembre 1991 era giunto sul posto del ritrovamento di Őtzi  (acquistando una notorietà invidiabile), potrebbe essere ‘sospetta’ e legata ad una strana forma di ‘maledizione’, secondo i due citati autori francesi! La vera causa fu un tumore al cervello, che lo ha stroncato il 1 giugno 2004.

Nello stesso anno,  il 15 ottobre, morì Helmut Simon (1937-2004), lo scopritore (insieme alla moglie Erika) di Őtzi. Da allora avevano scritto libri e partecipato a conferenze, sentendosi importanti. Dopo la scoperta avevano ricevuto anche una ricompensa perchè quello era a tutti gli effetti un reperto archeologico di estremo interesse per tutta l’umanità. Scomparve un giorno, Helmut, dopo aver detto che andava a fare il suo solito giro sui pendii alpini, a Bad Hofgastein, vicino a Salisburgo (in Austria), mentre con la moglie era in vacanza per cure termali. Per otto giorni non si seppe niente di lui. Venne cercato invano, finchè il suo corpo esanime fu ritrovato con la rottura delle vertebre cervicali, dopo un volo di cento metri tra i crepacci. Qualcuno mormorò che la mummia si era vendicata di colui che l’aveva riportata nella civiltà!

A questo punto i giornali cominciarono a tessere la trama della ‘maledizione di Őtzi’! Si sparse la voce che chi aveva disturbato la mummia e se ne era servito per interessi personali, scompariva in strane circostanze. I diretti interessati iniziavano a crederci? Pare che a non credervi affatto vi fosse l’igienista Friederich Tiefenbrunner (1941-2005), al quale si deve il progetto di conservazione del corpo di Őtzi perchè già poco dopo il ritrovamento la mummia mostrava segni inquietanti di deterioramento. Il batteriologo era un serio professionista, attivo nelle ricerche condotte sul DNA della mummia stessa, ed era stimato da tutti come una persona che non voleva apparire, discreta. Quando si trattò di trasferire la mummia a Bolzano, nella sua nuova sede, dovette ingegnarsi non poco, in quanto non solo si doveva conservarla lontana da contaminazioni ma si doveva anche renderla visibile al pubblico. Pochi sanno che per raggiungere gli idonei parametri ambientali che permettono a Őtzi di mantenersi integro, sono state fatte diverse prove, impiegando cadaveri presi a prestito all’obitorio (sempre secondo i due Autori del libro) e riproducendo diverse soluzioni microclimatiche, fino a che si è raggiunto l’optimum. Cambiando ‘casa’, da Innsbruck a Bolzano, pare che la mummia abbia cominciato a perdere peso; gli scienziati non sapevano che fare, ma si capì che bisognava correggere il grado di umidità. Ogni quattro settimane, un sistema a doccia irrora il corpo di acqua sterilizzata, spruzzata assai finemente, e ciò consente di mantenere i tessuti umidi, mentre un sottile strato di ghiaccio trasparente forma una barriera protettrice sul corpo stesso. Tiefenbrunner è stato geniale e ha salvato la mummia dal disfacimento. Il professore morì durante un intervento chirurgico, il 7 gennaio 2005; i soliti critici sostengono che non avesse speculato su Őtzi, ma che quest’ultimo non abbia gradito di essere esposto in pubblico: per questo la presunta ‘maledizione’ si sarebbe abbattuta ugualmente sullo scienziato. Fantasticherie, certo, ma ciò alimenta il mistero…

Pochi mesi dopo, il 17 aprile 2005, morì un altro personaggio che aveva avuto a che fare con Őtzi, un archeologo che si era opposto alla nuova sistemazione della mummia a Bolzano, appellandosi alla morale e al rispetto universale dovuto ai morti.Il suo nome era Konrad Spindler (1939-2005) e per sette anni si era occupato dell’Uomo dei ghiacci, a Innsbruck;Őtzi lo aveva tratto da una condizione di anonimato e portato alla ribalta dei riflettori. Si sentiva un po’ l’Howard Carter della situazione, ed è comprensibile! Morì affetto da una patologia muscolare degenerativa, mentre -in ospedale- ancora si ostinava a voler scrivere una sorta di compendio sull’Uomo dei ghiacci.

Il 19 ottobre 2005 morì anche un altro studioso che aveva avuto contatti professionali con la mummia del Similaun, il dr. Thomas Loy (1942-2005). Egli faceva parte dell’equipe incaricata delle ricerche, in qualità di archeologo molecolare. Un campo pionieristico, ma come lo gratificava poter lavorare sulle tracce di sangue rinvenute nei pressi della mummia! Loy sapeva della ‘maledizione’, ne scherzava, ma la sua morte fu orribile: quasi ‘sciolto’ per il caldo, nel suo letto di casa. Dopo giorni che non si era presentato all’Università dove insegnava, la polizia venne allertata e, sfondando la porta, si ritrovò davanti uno spettacolo agghiacciante, un corpo liquefatto in avanzato stato di decomposizione. L’uomo doveva essere morto almeno due settimane prima, probabilmente di un accidente vascolare improvviso. Qualcuno dice che stesse scrivendo un libro che faceva il punto delle sue ricerche su Őtzi (libro che non venne mai trovato), altri sottolinearono che questa era la settima vittima della ‘maledizione’. Loy invece era solito dire:”La gente muore. Tutto qui”.

[1] – “L’Uomo del Similaun:la vita, la storia, il suo ambiente”, Bergamo, Teatro Sociale, 17/10/2009

[2] – Per quanto riguarda il fungo dell’esca, la sua presenza in contesti archeologici è quasi sempre in relazione all’accensione del fuoco. In Danimarca (Maglemose), è stato trovato associato a frammenti di pirite e silice, in un contesto ambientale datato almeno al 6.000 a.C., mentre in Inghilterra, nello Yorkshire (Star Carr), reperti di questo fungo, in alcuni casi ancora attaccati a pezzi di betulla, e frammenti di pirite sono stati datati ancora prima. Inoltre, alcuni campioni sono stati trovati nei villaggi su palafitte in Italia e Svizzera, insieme a Daedalea quercina,Ganoderma lucidum e Phellinus ignarius. Il più antico ritrovamento risale a circa 11.000 anni fa. E’ possibile che l’esca usata in passato fosse costituita da semplici frammenti di fungo essiccato che catturavano le scintille prodotte dal contatto di pirite e selce. Fin dai tempi di Ippocrate (V secolo a.C.), il fungo dell’esca si applicava, mentre bruciava, per cauterizzazioni. Questo uso è sopravvissuto fino ai nostri giorni tra Lapponi, Cinesi e Giapponesi. Si usava anche come emostatico da parte di chirurghi, barbieri e dentisti, da cui il nome ‘agarico dei chirurghi’,  mentre una specie di cotone assorbente preparato con questo fungo si applicava esternamente su ferite e bruciature, o come compressa riscaldante. In Europa, si usava contro dismenorrea, emorroidi e problemi alla vescica, in India come diuretico, lassativo e tonico nervino, in Cina contro il cancro dell’esofago e il carcinoma gastrico e uterino. Tra i Khanty della Siberia, questa specie era ridotta in polvere insieme a Phellinus ignariuse inalata, mentre gli Indiani Americani Athapaskan, Eyak, Tanaina e alcuni Eschimesi ne fumano le ceneri, da sole o in miscela con tabacco. Il fungo dell’esca trovava uso anche in rituali di fumigazione tra i Khanty e gli Ainu di Hokkaido, in Giappone, quando lo si bruciava attorno alle case durante tutta la notte, per cacciare gli spiriti malvagi portatori di malattie ed epidemie. Il fungo dell’esca contiene principalmente steroli, fomentariolo e terpeni. Il fomentariolo avrebbe una limitata attività batteriostatica, mentre un polisaccaride isolato da culture miceliari inibirebbe il tumore nei topi. Infine, l’estratto liquido del fungo sarebbe piuttosto efficace nel topo contro una specie di sarcoma.

 

 

 

 

5)  DALLA  LEGGENDA ALLE CERTEZZE  SUL SELENIO

 

Selenio

Un agricoltore-allevatore Australiano si e’ guarito da solo, da un cancro all’intestino inoperabile ed in fase terminale, assumendo ogni giorno per qualche mese questo prodotto che utilizzava per le sue bestie.

Quando e’ andato dal suo oncologo per farsi controllare dopo vari mesi, il medico e’ rimasto stupefatto per aver constatato la scomparsa del cancro, diagnosticato, con tanto di esami e tac, qualche mese prima.

 

Il trattamento elaborato dall’agricoltore consiste nell’utilizzare del Selenio liquido (Selenium Drench Concentrate) utilizzato in agricoltura, prodotto che si puo’ acquistare presso i fornitori di prodotti veterinari.

La vendita del Selenio per uso umano e’ proibita da anni, Il costituente attivo corrisponde a 10mg di selenio per mL in forma di selenite di sodio.

La dose e’ un cucchiaino ogni 2 litri di acqua, miscela di cui si assumono 226 mL o due terzi di una tazza da 400mL, ogni mattina a stomaco vuoto.

Fonte: E.mail di Keith, 26/02/2004 inviata a Nexus magazine a meta’ del 2005.SELENIO: BUONE NOTIZIE nella CURA del CANCRO.

Questa insolita esperienza di un agricoltore dell’Australia occidentale mi è stata raccontata da uno dei suoi amici, il quale vive a Melbourne (AU). Vi è un lieto fine dopo l’altro, quasi.

All’agricoltore in questione era stato diagnosticato un cancro all’intestino. Il suo medico chirurgo predispose la data del suo ricovero in ospedale per l’intervento di asportazione e, dopo tutta la trafila del caso, gli fece visita nella sua stanza per informarlo che dopo aver visto i vari esami e le lastre, tutti gli esperti implicati avevano stabilito che il cancro era inoperabile e che tutti i test indicavano che il suo cuore non era abbastanza forte da sopportare un intervento chirurgico di tale portata.

L’agricoltore replicò: “Dottore, mi sia dicendo che non può fare nulla per me ?” “Sì”, fu la risposta del dottore, e si scusò per la tardiva inversione di rotta. L’agricoltore chiese che la moglie lo accompagnasse fuori dall’ospedale e che il figlio raccogliesse la sua roba e la por­tasse alla macchina; disse che se ne sarebbe tornato a casa e si sarebbe curato da se’.Da molti anni l’agricoltore si dedicava alla prevenzione e alla cura di varie malattie che colpivano il suo bestiame e le sue pecore.

Un beverone dimostratosi particolarmente efficace era il Selenium Drench Concentrate, così decise di prepararne una dose quotidiana per sé stesso commisurata al proprio peso corporeo, cosi come aveva fatto tante volle per i suoi animali.

Nei mesi seguenti l’agricoltore assunse ogni mattino a stomaco vuoto la dose in questione ed, a distanza di vari mesi, la moglie gli disse: “Mi sembra che tu stia migliorando ! Hai un bell’aspetto e non sembri affatto malato. Credo che faresti meglio ad andare dal medico a farti controllare !”. Egli segui il consiglio; il medico gli comunicò che, per quanto poteva desumere da un esame esterno, ilcancro era scomparso, quindi gli disse di tornare a casa e godersi la vita.

Dopo qualche giorno alla fattoria arrivò una signora, vestita con abiti eleganti e alla guida di una macchina lussuosa, la quale esordi dicendo: “Abbiamo lo stesso medico curante ed egli mi ha riferito che lei si e curato da solo un cancro all’intestino. Ho questa stessa malattia e sono venuta a chiederle di mettermi a conoscenza della sua cura,”

L’agricoltore replicò: “Signora, iniziare a comportarmi come se fossi un medico mi converrebbe molto di più che occuparmi della mia fattoria. Ma so quanto lei e disperata. Tirerò fuori gli ingredienti e le mostrerò come ho realizzato la miscela, ma non glieli posso dare. Mia moglie ed io dobbiamo occuparci delle incombenze serali — dar da mangiare al pollame, mungere le vacche e così via. Se desidera può sottrarci gli ingredienti finché siamo impegnati nel­e faccende, ma io non glieli posso dare !”

Questo è precisamente ciò che fece la donna, la quale si euro secondo le istruzioni ricevute. A diversi mesi di distanza sì ripresentò con dei mazzi di fiori e dei regali, dicendo agli amici agricoltori che era guarita ed aveva avuto il benestare dal loro medico comune.

Poco tempo dopo un’altra donna vestita elegantemente sì presentò alla fattoria. Era stata indirizzata lì dalla prima signora; era affetta da cancro all’intestino e voleva conoscere la cura. L’agricoltore replicò che si sarebbe comportato esattamente come aveva fatto in precedenza con la sua amica — e così fece, con i medesimi eccellenti risultati

Quasi per ironia della sorte, vari mesi dopo il medico dell’agricoltore si presentò alla fattoria, dichiarando di essere venuto per qualcosa di più di una visita di cortesia, in quanto anche lui era affetto da cancro all’intestino e voleva conoscere la cura; l’agricoltore seguì la stessa prassi adottata in precedenza con le due signore, e con gli stessi eccellenti risultati.

Quanto all’esperienza dell’amico che mi ha raccontato questa vicenda, dato che egli presentava un livello assai elevato di PSA [antigene prostatico specifico] si sospettava che avesse un cancro alla prostata; costui iniziò a seguire la cura e ben presto il suo PSA rientrò nei valori normali. Ad un altro mio amico è stato diagnosticato un effettivo cancro alla prostata ed egli stava predisponendo un intervento chirurgico; ha seguito una cura al selenio e di recente ha avuto un “cessato allarme” medico. Alcuni amici che hanno seguito la cura in via precauzionale — nella convinzione, che condivido, che essa agisca come prevenzione —hanno riscontralo che i tumori cutanei di lieve entità che avevano sulle mani sono scomparsi.

Tratto da Nexus n° 59

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Il selenio ha avuto momenti di celebrità nei mass-media per le sue proprietà anti-ossidanti e protettive per l’ organismo. In effetti, questo elemento chimico dello stesso gruppo dello zolfo, svolge una funzione molto importante nel nostro organismo, malgrado la sua piccolissima quantità totale, circa 13 mg.

– Sembra che non ci siano cibi con un contenuto costante di selenio come può essere quello della vitamina-c nei limoni, perchè tale contenuto dipende dalla concentrazione di selenio nel terreno che varia da una regione all’ altra.

L’ italia, per esempio, ha di solito suoli piuttosto poveri di selenio, quindi, anche i suoi prodotti agricoli non ne contengono molto. Comunque, i dati sull’ assunzione media pro-capite di selenio degli italiani riportano 0,041 mg/giorno per gli adulti

– gli alimenti più ricchi risultano essere le carni, queste ultime, con una concentrazione maggiore nel fegato. Le uova ne contengono circa 0,056 mg/100 g di alimento nel tuorlo.

Gli alimenti vegetali comuni ne contengono meno, ma più che sufficiente per il fabbisogno della nostra dieta. Tra questi, il più ricco di selenio è il germe di grano, con 0,079 mg/100 g di alimento, seguito dai funghi porcini (0,026 mg/100 g), dal pane di frumento (0,023 mg/100 g) e poi da noci, olive nere, cereali e cacao magro. Nel terzo sito delle referenze si riporta una lunghissima tabella con il contenuto medio in microgr./100 g di alimento nei vari cibi.

– il selenio è presente in natura in piccole quantità di sali inorganici e, nei tessuti animali e vegetali, al posto dello zolfo negli amminoacidi solforati, per esempio, nella selenometionina (ch3-se-ch2-ch2-chnh2-cooh) che vengono utilizzati per la sintesi di proteine contenenti selenio.

– Date le piccole quantità presenti nel nostro organismo, dobbiamo andarci piano con gli integratori che lo contengono, senza sperare inutilmente che quantità elevate proteggano le nostre cellule fino a donarci l’ eterna giovinezza. Il selenio, infatti, ha un fabbisogno medio valutato tra 0,055 e 0,200 mg/giorno, ma dosi maggiori cominciano solo a renderlo tossico.

– svolge un’ attività protettiva per le membrane cellulari contro radicali liberi e perossidi e ha un ruolo nella respirazionecellulare. Agisce come coenzima nell’ attività degli ormoni tiroidei.

– Contribuisce a mantenere in efficienza il sistema immunitario.

Malgrado la sua variabile presenza nel suolo, la carenza di selenio è rara. Tuttavia, ci sono alcune zone del mondo con terreni particolarmente poveri di selenio, come alcune regioni della cina e la nuova zelanda. In questi paesi, una cardiopatia è particolarmente diffusa tra la popolazione (malattia di keshan) ma regredisce quando si somministrano integratori al selenio in aggiunta alla dieta, come accade, fortunatamente, con tutte le altre carenze vitaminiche.

Inoltre, la carenza di questo elemento provoca altri disturbi piuttosto gravi, come ipertensione, anemie, cirrosi e persino sclerosi multipla (degenerazione del tessuto nervoso) e cancro.

Le fonti sono d’ accordo nel riferire che il selenio provoca effetti tossici come disturbi gastrointestinali, perdita di capelli, macchie bianche nelle unghie, stanchezza, irritabilità, leggeri danni neurologici ed infiammazioni polmonari.

 

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