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Articoli Settembre

 

Dormendo s’impara

 

 

Grazie al sonno le esperienze della veglia trovano una logica, gli esperimenti scientifici dimostrano la relazione tra la qualità del sonno e quella della vita diurna. Il cervello ripercorre le esperienze vissute durante la veglia, le smonta, le cataloga e le immagazzina nelle varie aree. Qui restano sotto forma di ricordi per un mese, un anno o per una vita intera, a seconda della loro importanza e del loro impatto emotivo. Senza il riordino che il cervello compie nelle ore notturne, le esperienze del giorno verrebbero dimenticate. Spiega Robert Stickgold, della Harvard Medical School di Boston: «Quel che il cervello conosce al mattino è molto più della somma dei ricordi della sera precedente. Durante la notte infatti si è dato da fare per integrare le nuove esperienze con quelle già presenti, facendoci diventare più intelligenti. La memoria non riguarda il passato. La memoria serve al futuro. Quel che abbiamo vissuto deve fungere da insegnamento per evenienze simili. Ma nulla si ripete due volte in maniera esattamente uguale. Il cervello, per poter riutilizzare un’esperienza del passato, deve saperla trasformare in una regola generale».

Oziare, preparare un esame o allenarsi in uno sport sono attività che richiedono tipi di sonno diverso, nel primo caso, i ricordi da consolidare sono ridotti e di conseguenza anche la necessità delle ore di riposo. Nel secondo caso, occorrerà invece una buona dose di sonno della fase Rem, nel terzo caso serve la “fase due” del sonno, la più efficiente per fissare uno schema motorio. «Se insegniamo ai volontari una sequenza di movimenti con le dita della mano sinistra – ha osservato Stickgold – la notte noteremo un’attività più intensa del normale nell’emisfero destro, quello che sovrintende alla mano impegnata negli esercizi».

La carenza di sonno aumenta l’ormone grelina legato all’appetito e diminuisce la leptina, legata alla sazietà. Lo scarso riposo attiva anche i circuiti dello stress, cui l’organismo risponde con un desiderio di sensazioni appaganti come il consumo di cibi ricchi di grassi e zuccheri.

 

 

Termiti coltivatrici di funghi

L’agricoltura delle termiti si è sviluppata nell’Africa tropicale

 

termiteL’agricoltura non è una caratteristica unica degli esseri umani: anche alcuni gruppi di insetti hanno sviluppato questo modo di vivere, per esempio le termiti che coltivano funghi all’interno dei loro nidi. Queste termiti si trovano sia nelle foreste pluviali sia nelle savane tropicali in Africa e in Asia. Ma in uno studio pubblicato sulla rivista “Current Biology”, una combinazione di analisi del DNA e di modelli al computer suggerisce che l’agricoltura delle termiti ha avuto origine nelle foreste pluviali africane e si è poi sviluppata in molte altre specie che vivono oggi in varie parti del Vecchio Mondo.
La relazione fra le termiti e i funghi coltivati costituisce un impressionante esempio di simbiosi: le termiti usano materiale vegetale masticato, come legno ed erba secca, per nutrire i funghi e consentire loro di crescere, mentre il fungo converte a propria volta piante indigeribili in nutrienti che le termiti possono utilizzare. Studi precedenti avevano mostrato che, in passato, si era verificata una singola transizione verso l’agricoltura quando le termiti avevano domesticato un solo tipo di fungo, rappresentato oggi dal genere Termitomyces.
I ricercatori Duur Aanen dell’Università di Copenhagen e Paul Eggleton del Museo di Storia Naturale di Londra hanno studiato 58 colonie di termiti coltivatrici (in rappresentanza di 49 specie) in Senegal, Camerun, Gabon, Kenya, Sud Africa, Madagascar, India, Sri Lanka, Thailandia e Malesia, scoprendo che l’agricoltura delle termiti ha avuto origine nelle foreste pluviali africane. La ricostruzione del loro habitat ancestrale deriva dall’habitat delle specie oggi viventi e dall’analisi della ricostruzione, basata sul DNA, delle relazioni fra le specie.
D. K. Aanen, P. Eggleton, “Fungus-Growing Termites Originated in African Rain Forest”. Current Biology, Volume 15, No. 9, pp. 851-855 (10 maggio 2005).

 

Fungo Ogm evita danni ambientali

 

Grazie a un fungo geneticamente modificato un team di microbiologi russi avrebbe attuato un “lavaggio” non aggressivo di parti metalliche normalmente inserite nei motori di aerei o di navicelle spaziali, evitando così il massiccio impiego di reagenti o decappanti particolarmente pericolosi per l’uomo e per l’ambiente.
Lo si apprende da una pubblicazione dell’Accademia delle scienze russa. “Già nel 2001 – afferma G.N. Dotsenko, coordinatore dello studio – osservando il comportamento di una coltura di Penicillium funiculosum nutrita con grafite, ci si era resi conto che i batteri riuscivano a cibarsi così bene di carbonio da lasciare perfettamente pulito il contenitore in cui agivano. Modificando il fungo per via biotech, ossia focalizzandolo meglio sui diversi composti carboderivati dei quali cibarsi, e applicando lo stesso gel a superfici anche molto ridotte che presentavano significativi residui carboniosi, a distanza di pochi giorni le abbiamo ritrovate completamente scrostate e senza alcun residuo”.

 

 

 

Evolve vita multicellulare in vitro

Un esperimento ha creato organizzazioni multicellulari stabili di lievito in appena 60 giorni al posto che migliaia di anni

 

 

Una trasformazione che ha umpiegato miliardi di anni per accadere in natura, si è verificata in laboratorio in appena 60 giorni.

Sotto pressione artificiale una singola cellula di lievito si è trasformata in una creatura multicellulare. Questo passo cruciale è il motivo per l’evoluzione della vita dai batteri alle alghe, e se questo lavoro non replica la transizione preistorica, può aiutare a scoprire i principi che l’hanno guidata.

“Non ha richiesto una complessità mistica o una serie di cose che le persone hanno ipotizzato -geni speciali, un enrme genoma, condizioni molto innaturali”, ha detto il biologo evoluzionista Michael Travisano dela University of Minnesota.
Nel nuovo studio i ricercatori guidati da Travisano e William Ratcliff hanno cresciuto il comune lievito di birra in una flask con un brodo nutriente.

Una volta al giorno hanno agitato la flask, rimosso i lieviti che si sono depositati sul fondo e li hanno usati per fare nuove culture. Il lievito surnattante, leggero, è stato ignorato, mentre quello che si depositava più facilmente è sopravissuto per riprodursi e moltiplicarsi.

Dopo appena un paio di settimane, singole cellule di lievito hanno abbandonato le loro singole identità per unirsi insieme. Alla fine di due mesi il raggruppamento si è stabilizzato, trasformato in un arrangiamento stabile.

“La multicellularità è l’ultimo stato di cooperazione”, ha detto Travisano, che vuole capire come la cooperazione nasce da organismi competitivi ed egoisti. “Più cellule hanno creato un individuo che coopera per il bene dell’intero gruppo. Qualche volta le cellule hanno rinunciato alla abilità di riprodursi per il bene del vicino.”

L’Articolo scientificoL’articolo su Google
“Experimental evolution of multicellularity.” By William C. Ratcliff, R. Ford Denison, Mark Borrello, and Michael Travisano. Proceedings of the National Academy of Sciences, Jan. 17, 2012.

 

 

Un fungo digerisce le resine fenoliche

Il fungo è già noto per essere in grado di decomporre anche DDT e PCB

 

 

Le resine fenoliche sono comunemente usate sia come adesivi industriali sia per la fabbricazione di oggetti, e in special modo parti della carrozzeria delle automobili. Queste resine sono ottenute da fenolo e formaldeide trattati in condizioni di temperature e pressione elevate in presenza di catalizzatori, e le loro catene molecolari vanno a formare strutture notevolmente intrecciate e difficili da rompere. A differenza di altre plastiche non possono essere rifuse e il loro smaltimento rappresenta un problema. Alcuni ricercatori del Dipartimento di biologia dell’Università del Wisconsin – La Crosse hanno scoperto che il fungo Phanerochaete chrysosporium è in grado di digerire queste resine, finora considerate refrattarie a qualsiasi forma di biodegradazione. Il fungo – chè è già noto per essere in grado di decomporre inquinanti come il DDT, il PCB, il TNT e le diossine, per compiere il suo compito di spazzino della plastica sfrutta un enzima, la ligninasi, che normalmente utilizza per degradare la lignina.

Esso si è però dimostrato attivo anche contro le resine fenoliche, in quanto la loro struttura molecolare ha punti di contatto con quella della lignina. I ricercatori – che hanno pubblicato la loro scoperta sulla rivista on line della American Chemical Society – avvertono però che per l’impiego del fungo a questo tipo di rifiuti è necessario superare ancora vari problemi, fra i quali l’isolamento di queste plastiche dagli altri materiali. Il fungo riciclatore, per esempio, soccombe in presenza di elevati quantitativi di metalli pesanti.

Articoli Agosto

 

Nei funghi un possibile aiuto contro il cancro al seno

Contengono sostanze con proprietà anti-aromatasi, enzima coinvolto nella produzione di estrogeni

 

I funghi oltre ad essere un piacere per il palato, potrebbero anche essere utili per prevenire il cancro al seno.
I ricercatori del Beckman Research Institute of the City of Hope di Duarte (California, Usa) consigliano introdurre nella dieta almeno 100 grammi al giorno di questo alimento perché, assicurano, alcuni componenti interferiscono con l’azione dell’aromatasi. Un enzima che aiuta l’organismo a produrre estrogeni, gli ormoni coinvolti nel processo di formazione e crescita del tumore della mammella. Questo è il risultato della ricerca che è apparso sulla rivista Cancer Research.
Studiando sui topi gli effetti di sette vegetali con proprietà anti-aromatasi gli esperti hanno verificato che i funghi bianchi, una delle varietà più consumate a tavola, sono i più efficaci nell’inibire l’enzima. I loro estratti hanno, nei topi, ridotto sensibilmente la proliferazione delle cellule cancerose, bloccando la crescita della malattia. Includere i funghi nella propria alimentazione – sottolinea Shiuan Chen, a capo dello studio – può davvero contrastare il tumore al seno. Anche meno di 100 grammi al giorno può avere una notevole efficacia per la prevenzione.

 

Funghi per bonificare suoli contaminati da uranio impoverito

I funghi trasformano l’uranio impoverito nella sua forma minerale difficilmente penetrabile in piante, animali, falde acquifere e sono ideali per i processi di bioremediation

 

Uno studio condotto da ricercatori dell’Università di Dundee, in Scozia, mostra che i funghi potrebbero essere utili nel recupero delle aree contaminate da uranio impoverito. I funghi, infatti, riescono a “bloccare” l’uranio impoverito in una forma minerale difficilmente penetrabile in animali, piante e falde acquifere. Sembrano quindi gli organismi ideali per essere utilizzati in processi di bioremediation.
Inizialmente l’uranio metallico che contamina il terreno viene coperto da uno strato di ossidi, mentre l’umidità ambientale corrode l’uranio impoverito favorendo la colonizzazione da parte dei funghi. I funghi, crescendo, producono sostanze acide che corrodono ulteriormente il metallo. Tra le sostanze prodotte dai funghi vi sono degli acidi organici che convertono l’uranio in una forma che i funghi riescono ad assorbire, facendolo poi interagire con altri composti. Alla fine del processo, l’uranio solubile con alcuni fosfati porta alla formazione di un nuovo minerale di uranio che viene depositato intorno alla biomassa del fungo.


Geoffrey Gadd, che ha guidato la ricerca, spiega: “Il nostro lavoro ci conferma le incredibili capacità dei microrganismi di effettuare trasformazioni sui metalli e sui minerali presenti nell’ambiente. Poiché i funghi sono dei perfetti agenti bio-geochimici – sottolinea il ricercatore – e spesso dominano i biota nei suoli contaminati e inoltre hanno un ruolo fondamentale nella colonizzazione e nella sopravvivenza delle piante attraverso la loro associazione con le radici, bisogna prenderli in considerazione nel trattamento e nel recupero dei suoli contaminati.”
Lo studio è stato pubblicato sull’ultimo numero di Current Biology.

 

In arrivo un farmaco anti-cancro che blocca l’angiogenesi

Si chiama lodamina, origina da un fungo ed è stato messo a punto con l’utilizzo di nanotecnologie: promette di combattere efficacemente molte forme di tumore colpendo i vasi sanguigni

 

 

La SynDevRx, un’azienda privata di biotecnologie di Cambridge, nel Massachusetts produrrà un farmaco anti-cancro molto promettente. Si tratta della lodamina, un inibitore dell’angiogenesi e agisce sui vasi sanguigni che nutrono i tessuti tumorali inibendone la crescita e di conseguenza affamando il tumore. Questo farmaco è stato sviluppato grazie agli esperimenti del dottor Judah Folkman, ora scomparso, considerato il padre delle terapie antitumorali basate sull’inibizione dell’angiogenesi. Folkman e colleghi hanno lavorato su questo farmaco per circa 20 anni e ora sembra pronto. Viene somministrato in forma di pillola e non causa effetti collaterali. I test in laboratorio sui topi hanno mostrato la sua efficacia contro diverse forme di cancro, tra cui quello al seno, alla prostata, al cervello, all’ovaio, all’utero e contro il neuroblastoma.
Ofra Benny e gli altri ricercatori del Children’s Hospital di Boston e dell’Harvard Medical School che hanno condotto i test e gli studi sulla lodamina, hanno spiegato che aiuta a bloccare i tumori primari e previene la loro diffusione.


Il farmaco, in origine, è stato isolato dal fungo Aspergillus fumigatus fresenius e in campo sperimentale era conosciuto come TNP-470. Le proprietà di questo fungo sono state scoperte casualmente da Donald Ingber: mentre cercava di far crescere le cellule endoteliali che rivestono i vasi sanguigni, la muffa aveva intaccato le cellule in modo da impedire la crescita dei capillari. Nel 1990, Ingber e Folkman avevano sviluppato il TNP-470 in Giappone con l’aiuto della Takeda Chemical Industries ma il farmaco agiva sul cervello e causava numerosi effetti collaterali tra cui depressione e vertigini e la somministrazione doveva essere continua, a causa della sua scarsa permanenza nell’organismo. I due ricercatori cercarono di migliorarlo ma non vi riuscirono.
La svolta si è avuta con il lavoro di Benny e colleghi che hanno utilizzato le nanotecnologie per attaccare due polimeri (a forma di pon pon) al TNP-470, per proteggerlo dagli acidi dello stomaco. La lodamina, il farmaco modificato, va dritto alle cellule tumorali e non causa effetti collaterali. Gli effetti sono molto positivi, riesce anche a distruggere melanomi e tumori polmonari.
I ricercatori hanno spiegato: “Dato che il metodo di somministrazione è orale, la pillola raggiunge prima il fegato, mostrandosi particolarmente efficace nei topi nel prevenire lo sviluppo di metastasi epatiche. La metastasi epatica è molto comune in molti tipi di tumore, e spesso è associata a una prognosi e a un’aspettativa di vita negative”. Benny ha concluso: “Non mi sarei mai aspettato un effetto così forte su queste forme di tumore così aggressive”. La ricerca è pubblicata su Nature Biotechnology.

 

I funghi decontaminano anche le traversine ferroviarie

Questo legno è trattato con una sostanza velenosa che ne allunga la vita oltre il tempo naturale di degradazione, e la specie Pleurotus ostreatus è particolarmente indicata nell’azione di risanamento

Il nome scientifico è Pleurotus ostreatus, ma i più lo conoscono come fungo Pleos, volgarmente usato per i diversi cloni coltivati. Oltre alle ben note qualità gastronomiche, il Pleurotus è anche uno dei più usati nel ripristino ambientale degli ecosistemi contaminati da sostanze tossiche. Un processo che prende il nome di bioremediation: microrganismi, funghi, piante e i loro enzimi sono capaci di riportare alla condizione originaria un ambiente naturale che è stato inquinato da contaminanti. Le ricerche dei biologi stanno mettendo in luce le potenzialità fino ad oggi poco conosciute dei funghi: oltre ad essere potenti indicatori dello stato di salute di un ecosistema, possono aiutare in modo concreto a «ripulirlo» da eventuali sostanze nocive immesse dall’uomo in un habitat naturale. Il Progetto «Speciale Funghi» dell’Ispra sta analizzando, nel corso di seminari mensili, le enormi potenzialità di questi organismi viventi. «Stiamo mettendo a fuoco con chiarezza quale ruolo cruciale svolgano i funghi nell’equilibrio degli ecosistemi e quali potenzialità enormi possiedano» ha affermato Carmine Siniscalco, micologo dell’Ispra e coordinatore del progetto. Questa volta, il seminario ha affrontato il tema della biorimediazione attraverso le tecniche biologiche. Tra le varietà di funghi utilizzate nel ripristino ambientale vi sono proprio i Pleurotus. La sperimentazione ha dimostrato che questa specie può decontaminare le traversine ferroviarie trattate con creosoto, una sostanza che conserva il legno per 30 anni oltre il tempo naturale di degradazione. I funghi basidiomiceti demoliscono le matrici legnose fino ad annullare la tossicità della traversina. Ma non solo: buoni risultati arrivano anche dalle sperimentazioni effettuate sugli antibiotici rinvenuti nelle acque e nel suolo, così come sulle aree inquinate da lindano.
Luciana Migliore (Università Tor Vergata, Roma) ed Emanuela Galli (Ibaf-Cnr) lavorano da tempo all’applicazione dei funghi come biorimedio: «L’approccio biologico è il futuro del ripristino ambientale – ha detto la Migliore -. Con la crisi economica in corso, sarà sempre più difficile affrontare le spese di costose tecniche di risanamento non biologiche». Gli ambienti acquatici sono stati i primi ad essere danneggiati dalle sostanze tossiche ed esistono tecniche ormai collaudate per rimediare all’inquinamento (per esempio con i depuratori, che funzionano grazie a batteri e funghi). Poco e male si è intervenuti sul suolo: sia perché è un sistema molto complesso che ad oggi richiede maggiori studi, sia per il fatto che l’inquinamento del suolo, restando spesso latente, non è considerato dall’opinione pubblica come una vera minaccia. Al contrario, è il collettore di elementi e composti tossici che contaminano l’ambiente naturale a vari livelli, e spesso nasconde vere e proprie «bombe chimiche a tempo».

NEI FUNGHI PIOMBO E MERCURIO, MA ANCHE ZIRCONIO E VANADIO: RAPPORTO EUROPEO

(ANSA) – ROMA, 10 GIU – Porcini al cadmio, ovoli al piombo e champignon al boro. I funghi, si sa, possono essere velenosi. Questi invece assorbono, in modo naturale, sostanze chimiche potenzialmente tossiche. Non e’ chiaro pero’ quale sia il limite oltre cui queste diventano nocive per la salute dell’uomo. La risposta e’ nel rapporto ‘Eur Report – Elementi chimici nei funghi superiori’, edito dal Jrc della Commissione europea e presentato dall’Istituto superiore di protezione ambientale (Ispra). Lo studio – riferisce l’Ispra – parte dalla domanda su quale possa essere il livello massimo di sostanze consentite. Si analizzano cosi’ le concentrazioni di 35 elementi chimici presenti in 9.000 campioni di funghi per definire i valori-limite oltre cui i metalli diventano dannosi per la salute dell’uomo e degli ecosistemi terrestri. Oltre a porcini e ovoli, c’e’ poi il caso dell’amanita muscaria: l’unico essere vivente in natura a accumulare zirconio e uno dei pochi a concentrare il rarissimo vanadio. Ma se un fungo contiene un alto livello di piombo non vuol dire che sia il terreno a essere contaminato. Significa che e’ il fungo a scegliere quali metalli assorbire. Cosa che ha portato i micologi a definire il ”fungo di riferimento”, ciascuna specie con i propri metalli pesanti. Ma quale siano i percorsi dei metalli nel corpo umano, afferma Carmine Siniscalco responsabile del progetto Speciale funghi di Ispra, ”non e’ ancora chiaro”. Secondo i micologi dell’Amb, l’ Italia possiede oggi una banca dati enorme: oltre 9.000 esemplari di funghi e 300 campioni di suolo. Un archivio unico in Europa che ha portato la Ue a riscrivere la normativa europea sui contaminanti nei prodotti alimentari. (ANSA).Y99-GU
(10/06/2009)

 

 

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Meta glucosio e K fegato

 

Intervento sul metabolismo del glucosio: una nuova classe di farmaci contro il cancro del fegato


Il carcinoma epatocellulare è una delle neoplasie più altamente letali al mondo e rappresenta la terza causa più comune di mortalità per tumore.

Negli Stati Uniti, l’incidenza di carcinoma epatocellulare è in aumento, secondaria ad un concomitante aumento dell’epatite C; negli ultimi due decenni l’incidenza di carcinoma epatocellulare correlato a infezione da virus dell’epatite C ( HCV ) è triplicata.

La sopravvivenza globale rimane scarsa inferiore a 9 mesi e dipende in gran parte dalla fase della malattia; i pazienti con malattia in stadio intermedio hanno una migliore aspettativa di sopravvivenza a 3 anni rispetto ai pazienti con malattia in stadio avanzato ( 50% vs 8%, rispettivamente ).

Inoltre, la maggior parte dei pazienti vengono diagnosticati in fase avanzata della malattia a causa della sua natura asintomatica, così come a causa della mancanza di un marcatore precoce di rilevamento per carcinoma epatocellulare.

Nonostante i recenti progressi nelle strategie terapeutiche, trattare il carcinoma epatocellulare rimane un compito arduo a causa della sua natura aggressiva, più specificamente per il rischio di invasione locale, diffusione metastatica e alto tasso di recidiva dopo terapia curativa, come pure a causa del fatto che il carcinoma epatocellulare è in gran parte refrattario alla chemioterapia sistemica.

Così, è strettamente necessaria una strategia terapeutica efficace diretta alle vie specifiche o correlate del carcinoma epatocellulare. Inoltre, poiché il carcinoma epatocellulare si verifica in genere nel contesto di malattie epatiche di base ( cirrosi ), i potenziali nuovi farmaci candidati dovranno esibire anche un profilo di tossicità estremamente favorevole.

Metabolismo del tumore

Nei tumori, uno dei fenotipi esibiti più importanti è l’up-regolazione della principale via di produzione di energia, la glicolisi. Questo fenotipo glicolitico tumore-specifico alterato, scoperto da Otto Warburg decenni fa, gioca un ruolo cruciale in diversi processi di biosintesi che facilitano la crescita ininterrotta del tumore ed è un indispensabile evento metabolico critico per la crescita sostenuta e l’invasione dei tumori.

Data l’inefficienza della glicolisi rispetto alla fosforilazione ossidativa ( 2 molecole di ATP versus 36 molecole di ATP prodotte per molecola di glucosio, rispettivamente ), ci si potrebbe chiedere perché le cellule tumorali preferiscono la glicolisi.

La ragione principale di questa preferenza è che le cellule tumorali sono in grado di generare ATP attraverso la glicolisi a un ritmo molto più veloce rispetto alla fosforilazione ossidativa per soddisfare le richieste energetiche di una crescita maligna aggressiva.

L’aumentato metabolismo del glucosio tramite glicolisi fornisce alle cellule tumorali i substrati essenziali per la rapida proliferazione, il ribosio per la sintesi degli acidi nucleici e il piruvato per l’assemblaggio delle membrane cellulari.

Inoltre, un’abbondante offerta di glucosio facilita anche il metabolismo del glucosio attraverso la via dei pentoso fosfati ( PPP ), coinvolta in diversi processi di biosintesi, così come la difesa cellulare ( antiossidanti ) nei confronti delle specie reattive dell’ossigeno ( ROS ).

E’ ben noto che le cellule di epatocarcinoma mostrano un alto tasso glicolitico di altri tumori maligni aggressivi attraverso l’espressione differenziale di enzimi coinvolti nella prima fase del metabolismo del glucosio.

Infatti, mentre le cellule normali del fegato si affidano alla glucochinasi ( esochinasi di tipo IV ) per catalizzare il primo passo della glicolisi, le cellule di carcinoma epatocellulare up-regolano decisamente l’espressione di un’isoforma diversa, in particolare esochinasi di tipo II ( HK II ), mentre sostanzialmente down-regolano la glucochinasi . Allo stesso modo, altri enzimi glicolitici come la gliceraldeide-3-fosfato deidrogenasi ( GAPDH ), LDH, e altri sono up-regolati durante la trasformazione maligna del carcinoma epatocellulare.

La disparità nel tasso glicolitico tra le cellule tumorali e le cellule normali con un conseguente aumento della domanda per il glucosio nelle cellule tumorali è già stata utilizzata dal punto di vista diagnostico mediante tomografia a emissione di positroni ( PET ) per l’imaging del tumore con l’analogo del glucosio Fluorodeossiglucosio ( FDG ), ma non è mai stata sfruttata come un potenziale bersaglio terapeutico.

In realtà, poiché questo risultato è così onnipresente nel cancro, è considerato una firma biochimica delle cellule tumorali.

Questo è il motivo per cui il metabolismo tumorale è stato giustamente descritto come il tallone d’Achille del cancro, indicandolo come un possibile bersaglio terapeutico. Poiché le cellule maligne diventano dipendenti dalla glicolisi e dipendenti da questa via per generare ATP, l’inibizione della glicolisi ridurrebbe in modo sensibile la produzione di ATP nelle cellule tumorali e quindi ucciderebbe preferenzialmente le cellule tumorali risparmiando le cellule sane circostanti.

Avere come obiettivo la glicolisi per il trattamento del cancro dovrebbe quindi rappresentare una nuova promettente strategia terapeutica.

Metabolismo del tumore come obiettivo

Una nuova classe di farmaci antitumorali ha rinnovato l’interesse della ricerca sul metabolismo tumorale combinato con una crescente comprensione dei meccanismi molecolari coinvolti nella regolazione della glicolisi del tumore e ha contribuito allo sviluppo di agenti diretti alla glicolisi.

Anche se alcuni di questi agenti sono stati valutati in modelli tumorali preclinici per il loro potenziale terapeutico, la maggior parte non ha funzionato in clinica a causa della mancanza di efficacia e/o per il manifestarsi di tossicità significativa.

Recentemente, tuttavia, un bloccante metabolico, 3-Bromopiruvato ( 3-BrPA ), un analogo alogenato dell’acido piruvico, ha guadagnato una notevole attenzione per i suoi notevoli effetti antitumorali e il suo basso profilo di tossicità.

L’aggiunta dell’alogeno bromina all’acido monocarbossilico, piruvato, si traduce in proprietà alchilanti del composto. Come risultato, 3-BrPA si lega al suo bersaglio formando un legame chimico irreversibile.
I test in vitro contro le cellule del carcinoma epatocellulare umano hanno dimostrato che 3-BrPA inibisce la glicolisi e blocca la produzione di ATP, provocando apoptosi in modo dose-dipendente.

Ulteriori indagini con 3-BrPA radiomarcato hanno identificato l’enzima glicolitico, GAPDH, come l’obiettivo primario intracellulare di questo agente.
Il legame di 3-BrPA con GAPDH ha causato l’inibizione dell’attività dell’enzima e, di conseguenza, la produzione glicolitica di ATP che ha portato alla morte delle cellule per apoptosi.

Le procedure guidate da tecniche di imaging, soprattutto terapie intra-arteriose, svolgono un ruolo chiave nel trattamento dei pazienti con cancro al fegato.
Il vantaggio di approcci locoregionali è che forniscono non solo l’accesso al centro del tumore, ma anche al bordo.
Inoltre, all’interno del tumore possono essere raggiunte concentrazioni di farmaco molto maggiori, riducendo al minimo l’esposizione sistemica.

Come risultato, la somministrazione intra-arteriosa di 3-BrPA è stata testata in vari modelli animali di cancro al fegato. I risultati sono stati estremamente incoraggianti dato che i tumori sono stati sradicati con successo, nella maggior parte dei casi, prolungando la sopravvivenza in modo significativo.

Alcuni animali sono stati addirittura curati, nonostante il fatto che questi tumori siano estremamente aggressivi.
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Vitamina E e K prostata

 

Studio SELECT: la supplementazione di Vitamina-E associata a rischio di cancro alla prostata


Il rapporto iniziale dello studio SELECT ( Selenium and Vitamin E Cancer Prevention Trial ) non ha messo in luce una riduzione del rischio di carcinoma prostatico con supplementi di Selenio o Vitamina E, ma un aumento non-significativo del rischio di questo tumore con la Vitamina-E.

Un follow-up più lungo e un numero maggiore di eventi di cancro alla prostata hanno fornito ulteriori informazioni sulla relazione tra Vitamina-E e questo tumore.

Lo studio è stato condotto con lo scopo di determinare l’effetto a lungo termine di Vitamina-E e Selenio sul rischio di carcinoma alla prostata in uomini relativamente sani.

Hanno preso parte allo studio 35.533 uomini arruolati in 427 Centri in Stati Uniti, Canada e Porto Rico nel periodo 2001-2004.

I criteri di eleggibilità includevano un livello di antigene prostatico specifico ( PSA ) uguale o inferiore a 4.0 ng/mL, un esame digitale rettale non sospetto per carcinoma prostatico e un’età uguale o superiore a 50 anni per uomini di colore e 55 anni per tutti gli altri.

L’analisi primaria ha incluso 34.887 uomini assegnati in maniera casuale a 1 dei 4 gruppi di trattamento: 8.752 a ricevere Selenio; 8.737 Vitamina-E; 8.702 entrambi e 8.696 placebo.

L’analisi riflette i dati finali raccolti dai Centri sui loro partecipanti entro luglio 2011.

Sono stati somministrati Selenio per via orale ( 200 microg/giorno da L-Selenometionina ) con placebo al posto della Vitamina E, Vitamina E ( 400 UI/die di d,l-alfa-Tocoferil acetato ) con placebo al posto del Selenio, entrambi i supplementi o placebo, per un follow-up minimo pianificato di 7 anni e massimo di 12 anni.

La principale misura di esito era l’incidenza di tumore alla prostata.

Questo rapporto ha incluso dati per ulteriori 54.464 persone-anno di follow-up e 521 casi aggiuntivi di carcinoma alla prostata rispetto al report primario.

Rispetto al placebo ( gruppo di riferimento ) nel quale 529 uomini hanno sviluppato carcinoma prostatico, 620 uomini nel gruppo Vitamina-E hanno sviluppato il tumore ( hazard ratio [ HR ], 1.17; P=0.008 ); così come 575 nel gruppo Selenio ( HR=1.09; P=0.18 ) e 555 nel gruppo Selenio più Vitamina-E ( HR=1.05; P=0.46 ).

Rispetto al placebo, l’aumento assoluto del rischio di tumore prostatico per 1000 persone-anno è stato di 1.6 per Vitamina-E, 0.8 per Selenio e 0.4 per la combinazione dei due supplementi.

In conclusione, la supplementazione alimentare con Vitamina E aumenta in modo significativo il rischio di cancro alla prostata tra uomini sani. ( Xagena2011 )

Klein EA et al, JAMA 2011; 306: 1549-1556

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Donne Anziane, vit.D e Frattura

 

3) Donne anziane: un alto dosaggio di Vitamina-D per os è associato a un aumento delle cadute e delle fratture


Migliorare lo status della vitamina D potrebbe essere un importante fattore di rischio modificabile per ridurre cadute e fratture; tuttavia, l’aderenza alla supplementazione giornaliera è generalmente scarsa.

Un gruppo di ricercatori australiani ha condotto uno studio per determinare se una singola dose annuale di 500.000 UI di Colecalciferolo somministrato per via orale a donne anziane in autunno o in inverno fosse in grado di migliorare l’aderenza e di ridurre il rischio di cadute e di fratture.

Nel periodo 2003-2005, sono state arruolate 2.256 donne di età uguale o superiore a 70 anni considerate ad alto rischio di frattura.

Le partecipanti sono state assegnate in maniera casuale a ricevere Colecalciferolo 500.000 UI oppure placebo ogni anno nella stagione autunno-invernale per un periodo da 3 a 5 anni.

Lo studio si è concluso nel 2008.

Cadute e fratture sono state accertate mensilmente; i dettagli sono stati confermati con interviste telefoniche e le fratture sono state confermate radiologicamente.

In un sottostudio, 137 partecipanti selezionate in maniera casuale sono state sottoposte a prelievi di sangue seriali per misurare i livelli di 25-idrossicolecalciferolo e ormone paratiroideo.

Tra le donne del gruppo Colecalciferolo ( Vitamina-D ) sono state osservate 171 fratture vs 135 nel gruppo placebo; 837 donne nel gruppo Vitamina D sono cadute 2892 volte ( tasso: 83.4 per 100 persone-anno ) mentre 769 nel gruppo placebo sono cadute 2512 volte ( tasso: 72.7 per 100 persone-anno; rate ratio [ RR ] incidente, 1.15; P=0.03 ).

Il rate ratio ( rapporto tra i tassi ) incidente per frattura nel gruppo Vitamina-D è risultato pari a 1.26 ( P=0.047 ) versus gruppo placebo ( tassi per 100 persone-anno: 4.9 Vitamina D versus 3.9 placebo ).

In un’analisi post hoc delle cadute è stato messo in luce un pattern temporale.

Il rate ratio incidente di cadute nel gruppo Vitamina-D versus gruppo placebo è stato pari a 1.31 nei primi 3 mesi dopo l dosaggio e 1.13 nei successivi 9 mesi ( test per omogeneità; P=0.02 ).

Nel sottostudio, il livello basale mediano di 25-idrossicolecalciferolo sierico era di 49 nmol/L.
Meno del 3% dei partecipanti al sottostudio presentava livelli di 25-idrossicolecalciferolo inferiori a 25 nmol/L.

Nel gruppo Vitamina-D, a 1 mese, i livelli di 25-idrossicolecalciferolo sono aumentati a circa 120 nmol/L; a 3 mesi erano circa 90 nmol/L; a 12 mesi sono rimasti più alti di quelli osservati nel gruppo placebo.

In conclusione, nelle donne anziane, la somministrazione annuale orale di alta dose di Colecalciferolo è risultata associata a un aumento del rischio di cadute e fratture. ( Xagena2010 )

Sanders KM et al, JAMA 2010; 303: 1815-1822

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